editoriali
Le violenze islamiche sulle donne e il cliché giustificazionista
“Taharrush Gamea” è un rituale violento e identitario maschile islamico, che consiste in violenze di gruppo contro donne in uno spazio pubblico. Su Repubblica il prof. Wael ha offerto un'analisi del fenomeno denso di semplificazioni
Che cosa si intenda con “Taharrush Gamea” lo abbiamo purtroppo imparato da molti anni. Anche se l’espressione araba è entrata nel linguaggio dei media dopo le aggressioni di carattere sessuale contro donne in piazza Duomo a Milano a Capodanno, malamente sottostimate dalle forze dell’ordine ma denunciate dalle vittime. “Taharrush Gamea” è un rituale violento e identitario maschile islamico, che consiste in violenze di gruppo contro donne in uno spazio pubblico. Secondo alcuni esperti, è legato alla cultura di provenienza dei responsabili di questi atti – solitamente giovani, immigrati o italiani di seconda generazione. Secondo altri, l’elemento etnico-religioso non è centrale e si tratterebbe invece di una reazione maschile contro l’affermata libertà delle donne. Intervistato ieri da Repubblica, l’arabista egiziano Farouq Wael, docente di lingua araba presso l’Università Cattolica di Milano, molto stimato in ambiente cattolico e considerato un facilitatore del dialogo tra culture e religioni, ha mescolato informazioni utili e giudizi decisamente discutibili.
Interessante l’inquadramento storico su questa pratica violenta che ha “origini in Egitto alla fine degli anni Novanta”, usata “come tecnica di repressione dalla polizia contro le attiviste”. Assai più discutibile è affermare che tra le cause ci siano “perdita della speranza, disoccupazione, guerra”. Insomma la classica ombra del colonialismo. In più, il professore insiste su un cliché semplificatorio, in fondo giustificazionista, per cui “non è una questione di cultura o religione”, ma il tema andrebbe inserito in un contesto che ha cause molto occidentali: “Il problema globale delle molestie sulle donne che riguarda in maniera drammatica anche tutto l’occidente”.
E lo “stereotipo femminile che si diffonde sui social e i profili di TikTok”. Un modo un po’ facile per evitare di prendere in considerazione un problema socio-culturale e di mancata integrazione. Ci si augura che nella dialogante cultura cattolica, così sensibile all’integrazione sociale e religiosa, si faccia qualche riflessione più seria.