Se sei un migrante non è “sequestro”
Il caso del Cie di Cona e i troppi eufemismi a mezzo stampa
I fatti avvenuti del Centro d’accoglienza di Cona, in provincia di Venezia, sono chiari. Dopo la morte di una giovane ivoriana è scoppiata una rivolta. In seguito alla quale 25 volontari, “poi liberati”, sono stati tenuti chiusi per una notte dentro un container. Come chiameremo questo fatto? Secondo il Codice penale (art. 605) e la glossa della Cassazione (sentenza 18186 del 4 maggio 2009) quando si priva qualcuno della libertà personale, intesa come “libertà di muoversi nello spazio e cioè come libertà di locomozione”, si configura il reato di sequestro di persona, punito con la reclusione da 6 mesi a 8 anni. Il nostro poco, o nullo, senso del pudore nel manipolare i fatti con la lingua dell’ideologia ha invece prodotto questa descrizione in gran parte della stampa italiana: i 25 volontari sono stati “assediati” (Corriere) o “bloccati” (Repubblica, Fatto, Unità).
Colpisce lo strano pudore che gran parte della stampa italiana ha mostrato nell’evitare di usare il termine “sequestro” – malgrado si attagli decisamente alla situazione descritta. Una prudenza che in altre occasioni è mancata. Se per ipotesi, a seguito di un caso di malasanità in Italia, i congiunti di una vittima avessero preso in ostaggio dei medici, l’atteggiamento dei giornalisti sarebbe stato egualmente giustificazionista? Colpisce la scelta astuta delle parole per minimizzare le responsabilità dei richiedenti asilo, trattati con un di più di correttismo. Monsignor Giancarlo Perego, direttore generale di Migrantes, ha detto che la rivolta di Cona “non giustifica una ulteriore e accentuata stretta della sicurezza sul piano dell’immigrazione”. Bene. Ma almeno chiamare le cose col loro nome?
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