Il diritto di vivere e la dignità nella morte

Redazione

Il Parlamento è pronto a discutere la proposta di legge sul testamento biologico. Ma il legislatore dovrebbe ricordare che far morire di fame o di sete una persona non è mai un atto di civiltà, lo capiscono tutti appena escono dal cerchio magico di ideologie assorbenti

A fine mese si discuterà in Parlamento la proposta di legge sul testamento biologico, argomento assai delicato che suscita contrapposizioni spesso viziate da pregiudizi ideologici. Il confine tra eutanasia e rifiuto dell’accanimento terapeutico non è facie da definire: a parole tutti si dicono favorevoli a una normativa che consenta al malato di rinunciare a cure ormai inutili e tutti sostengono di non voler introdurre il suicidio assistito e l’eutanasia passiva.

 

Però la questione che non si può risolvere senza rischiare di entrare in questo ambito è quella della nutrizione e idratazione. Una persona sana o comunque non in pericolo immediato di terapie invasive può essere indotta dalla volontà di non apportare ulteriori sofferenze ai famigliari a firmare per un rifiuto dell’idratazione. Ma poi, quando non è più in grado di decidere e quindi di recedere da questa scelta finirebbe con il morire in un modo orribile. Morire di sete non è un modo “dignitoso” di lasciare questo mondo. E’ un modo tremendo, e nessuno può sapere come ne risenta una persona che per le sue condizioni di coma o di demenza non è in grado di comunicare. Di fronte a questo interrogativo il legislatore si dovrebbe fermare. Invece proprio su questo si incentra la battaglia con la quale si vuole ricordare il decennale della scomparsa di Piergiorgio Welby. Eppure Welby chiedeva esplicitamente il diritto all’eutanasia, come scrisse in una sua lettera al Presidente della Repubblica, domandando che si fermasse il macchinario della respirazione automatica.

 

Se si evitasse di insistere sugli aspetti più discutibili della normativa, se soprattutto non ci si accanisse nella richiesta di far morire di sete o di fame un malato terminale, si potrebbero precisare e ampliare le norme per evitare l’accanimento terapeutico, si potrebbero tutelare i medici da responsabilità in caso di interruzione delle cure su richiesta del paziente, anche se espressa in anticipo attraverso il cosiddetto testamento biologico. La dignità della persona è legata alla sua unicità e al suo inalienabile diritto alla vita. Questo non è solo un articolo del Catechismo, ma la base di tutte le dichiarazioni dei diritti dell’uomo. Vivere e anche morire in modo dignitoso è un diritto, che non può però essere invocato per realizzare pratiche che lo contraddicono. Far morire di fame o di sete una persona non è mai un atto di civiltà, lo capiscono tutti appena escono dal cerchio magico di ideologie assorbenti. La battaglia che si riprende su questi temi sarà combattuta a suon di emendamenti e di regolamenti parlamentari. E’ naturale che sia così, ma quella che servirebbe è una battaglia culturale e civile davvero a sostegno della dignità della vita e della morte.

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