Fine vita per sete? Meglio pensarci
Perché trattare idratazione e alimentazione come “terapie” è un errore
Il cardinale Angelo Bagnasco ha introdotto per l’ultima volta la riunione del consiglio permanente della Conferenza episcopale con una prolusione breve, nella quale ha trovato spazio una frase critica nei confronti della legge sul fine vita che riprenderà il suo iter parlamentare a fine mese. Dopo aver lamentato le lentezze e le difficoltà che ostacolano l’adozione di provvedimenti fiscali e assistenziali a favore delle famiglie, il prelato osserva: “La discussione politica verte, piuttosto, su altri versanti, quali ad esempio il fine vita, con le implicazioni – assai delicate e controverse – in materia di consenso informato, pianificazione delle cure e dichiarazioni anticipate di trattamento. Ci preoccupano non poco le proposte legislative che rendono la vita un bene ultimamente affidato alla completa autodeterminazione dell’individuo, sbilanciando il patto di fiducia tra il paziente e il medico. Sostegni vitali come idratazione e nutrizione assistite, ad esempio, verrebbero equiparate a terapie, che possono essere sempre interrotte. Crediamo che la risposta alle domande di senso che avvolgono la sofferenza e la morte non possa essere trovata con soluzioni semplicistiche o procedurali; la tutela costituzionale della salute e della vita deve restare non solo quale riferimento ideale, bensì quale impegno concreto di sostegno e accompagnamento”.
Come si vede né lo spazio né il tono delle dichiarazioni di Bagnasco sembrano preludere a una campagna di opposizione, prevale piuttosto l’invito a una discussione non chiusa in pregiudiziali di carattere ideologico. Non si capisce, per la verità, perché dovrebbe essere considerato “laico” far morire una persona di sete, con le connesse inevitabili sofferenze. La legge in discussione consente di interrompere, su richiesta anche precedente del malato, il sostegno artificiale alla respirazione e all’attività cardiaca, consente di utilizzare farmaci palliativi e antidolorifici senza preoccuparsi di eventuali controindicazioni: insomma, va al massimo limite della cessazione dell’accanimento terapeutico, e forse lo supera. Perché dunque insistere nel definire terapeutiche l’idratazione e l’alimentazione assistite, che non sono affatto una cura, come capisce anche un bambino, al solo scopo di permetterne la sospensione in modo da provocare una morte che nessuno può decentemente definire dignitosa? Il fatto che la chiesa si astenga da una battaglia di tipo confessionale dovrebbe aiutare anche i laici a riflettere sulla questione della dignità della vita e della morte senza posizioni preconcette, in un dibattito eticamente complesso sui limiti della cura. Rispettare la volontà soggettiva è una cosa, e una legge è necessaria; autorizzare un percorso alla morte per sete o fame è tutt’altra.
I guardiani del bene presunto