Matteo Renzi (foto LaPresse)

Perché l'Economist ce l'ha tanto con Renzi

Redazione

Il settimanale britannico ha commentato così la vittoria alle primarie del Pd: “L’autocratico ex primo ministro avrà pure charme, ma manca della finezza machiavellica necessaria a gestire la situazione (politica italiana)”.

“Votate conservatore. Ma scegliete il candidato di destra ambiguo, piuttosto che quello debole”. Così l’Economist motivava il suo endorsement a Tony Blair, nel 2001, preferendolo al leader dei Tory William Hague. Il Regno Unito si apprestava a votare di nuovo dopo quattro anni di governo Labour e il settimanale britannico, dichiaratamente liberal-liberista, come di consueto invitava l’elettorato a votare per chi più si avvicinava alle sue idee. L’endorsement a Blair verrà replicato nel 2005, più o meno con le stesse motivazioni: “Tony Blair, nonostante tutti i suoi difetti, rimane la miglior opzione di centro-destra disponibile”.

 

Viste le sue posizioni liberali sui temi etico-sociali e inflessibilmente conservatrici sui temi economico-fiscali, quando si esprime sulla politica interna di altri paesi l’Economist tende a preferire candidati centristi rispetto a quelli conservatori, candidati che teoricamente vengono dalla sinistra ma governano – o aspirano a governare – a destra. Politici, insomma, come Tony Blair, Justin Trudeau, Albert Rivera, Emmanuel Macron e Matteo Renzi. Tutti questi leader hanno avuto il beneplacito del settimanale più prestigioso al mondo. Tranne Renzi, il cui operato è stato sistematicamente criticato sin dall’ascesa al potere nel 2014.

 

Ieri l’Economist commentava la sua vittoria alle primarie del Pd dicendo che “l’autocratico ex primo ministro avrà pure charme, ma manca della finezza machiavellica necessaria a gestire la situazione (politica italiana)”.

 

Non è un mistero che il nostro paese occupi un posto speciale nelle cronache dell’Economist: Bill Emmott, direttore tra il 1993 e il 2006, durante la sua “editorship” avviò una dura campagna contro l’ex premier Silvio Berlusconi – celeberrima la copertina “l’uomo che ha fottuto un intero paese” – e scrisse il docu-film di Annalisa Piras “Girlfriend in a coma” per denunciare, sostanzialmente, il declino del paese imputato al Cav.

 

Eppure spesso sembra che il giornale londinese non conosca davvero la politica e la cultura italiana, come testimoniato dall’assurda motivazione per il No al referendum costituzionale del 4 dicembre. “Serve un governo tecnico che faccia le riforme strutturali necessarie al paese”, spiegava qualche settimana prima della debàcle di Renzi, apparentemente ignorando il mostruoso discredito politico ancora oggi nutrito da gran parte dell’elettorato italiano verso l’èra Monti.

 

Sorprende, nella sua avversione a Renzi, lo sganciamento dell’Economist dal pragmatismo che da sempre lo contraddistingue. Il giornale che pur disprezzandolo scelse Obama due volte e che fece campagna contro la Brexit pur nutrendo da sempre un certo euroscetticismo di maniera, quando scrive di Renzi non nasconde mai la sua avversione all’ex premier pur essendo consapevole che “There is no alternative”. Almeno dal loro punto di vista.

 

“Dopo la sconfitta di Geert Wilders alle elezioni olandesi e la vittoria di Emmanuel Macron al primo turno delle presidenziali francesi – continua l'editoriale pubblicato ieri – sarebbe allettante vedere la vittoria di Renzi [alle primarie, ndr] come un’ulteriore evidenza dell’ondata di ritorno contro il populismo euroscettico. Ma nonostante Renzi si auto proclami un ardente europeista, il suo entusiasmo si limita a un’Ue di sua invenzione: una in cui Bruxelles smettesse di preoccuparsi dell’enorme debito pubblico italiano (133 per cento del pil alla fine del 2016) e che lo lasciasse spendere abbondantemente per promuovere la crescita”.

 

Se non è strategia politica, che non si tratti di antipatia personale?

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