Il Tap sotto scorta
Gli operai scortati dai blindati e il giornalismo democratico in silenzio
A tutte le iene, agli “agenti provocatori” e agli epigoni del giornalismo democraticamente abbaiato: c’è una formidabile occasione per un vero servizio giornalistico, come si dice, dal basso e sul territorio, e oltretutto parte della fatica l’ha fatta ieri il Sole 24 Ore con il gran reportage “Tra gli operai Tap nel cantiere della paura”. Una storia di lavoro e lavoratori, di investimenti e denari pubblici, dunque come Embraco, però al contrario. In Piemonte dipendenti incatenati ai cancelli per lavorare. In Puglia operai scortati in cantiere in piena notte dai blindati delle forze dell’ordine, su itinerari sempre diversi per evitare agguati e barricate che i No Tap spostano da una parte all’altra. Per poi, una volta in cantiere, trincerarsi dietro barriere antisfondamento, filo spinato, reti antisassaiole. Senza contare le minacce: un piccolo imprenditore dell’indotto si è trovato davanti all’azienda la scritta “collaborazionista”.
E d’altra parte lo stesso governatore pugliese Michele Emiliano commenta così i corsi di alta formazione turistica offerti ai ragazzi pugliesi dal consorzio Tap: “Mi auguro che nessun giovane salentino aderisca tradendo la sua terra, e che nessun operatore turistico intenda assumere coloro che parteciperanno a questi corsi”. La disoccupazione in Puglia è al 18,9 per cento, 8 punti più della media nazionale; quella giovanile al 58 per cento. Emiliano è un esponente Pd antirenziano di lotta e di governo, che sui movimenti del No ha costruito la propria carriera: No Triv, No Ilva, No Tap.
Ma che dire dei media nazionali giustamente solleciti a spedire inviati e telecamere su ogni fronte di crisi sociale e industriale? La vicenda Tap è nota: la pipeline che deve approvvigionare l’Italia e l’Europa di 20 miliardi di metri cubi di gas proveniente dall’Azerbaigian (oltre un quarto del fabbisogno nazionale) è in avanzato completamento in Turchia, Grecia e Albania, dove corre per 870 chilometri. Per gli ultimi otto nel comune leccese di Melendugno si va avanti a colpi di ricorsi al Tar e Consiglio di stato (tutti persi), causa ufficiale 211 ulivi temporaneamente ricollocati. Dopo i ricorsi, siamo ora alle intimidazioni, anonime ma anche istituzionali, alle scorte armate, al lavoro blindato. C’è una parte d’Italia, per giunta al sud, che nega il lavoro; mentre altrove lo si difende con le unghie e i denti da quella che proprio i No Tav considerano nemici da abbattere: la globalizzazione, la delocalizzazione, la finanza tentacolare (delle procure pugliesi sono incidentalmente le inchieste finite nel nulla contro le banche e le agenzie di rating).
Michele Mario Elia, country manager per l’Italia di Tap, sul Foglio di ieri ha assicurato che i problemi si risolveranno, come si sono risolti per l’Alta velocità ferroviaria che oggi è un fiore all’occhiello del paese. Ma chi politicamente spalleggia direttamente e indirettamente i violenti sono e sono stati gli stessi politici – la sinistra stile Emiliano, la Lega che appoggiò i referendum anti-trivelle – che poi spargono lacrime sul lavoro tradito e sull’Italia svenduta agli stranieri. E i media? La Gabanelli, ai tempi di “Report”, si occupò di Tap nel 2016, però per denunciare la “caviar democracy” dell’Azerbaigian. Magari Fanpage potrebbe inviare anche in Salento qualche agente provocatore, per scoprire chi organizza le intimidazioni e costringe gli operai a muoversi sotto scorta.
Qualche Iena potrebbe anche scavare su quanto costa mobilitare le forze dell’ordine non contro i criminali ma per difendere normali lavoratori. E già che ci siamo, dopo la lodevole inchiesta del suo quotidiano, la Confindustria e gli imprenditori potrebbero pensare a qualcosa di simile alla marcia dei 40 mila che nel 1980 cacciò gli estremisti dalla Fiat e salvò una prima volta il futuro industriale, e il lavoro, del paese.
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