Contro il dissesto ideologico
All’origine dell’incapacità di evitare incidenti infrastrutturali e contenere le calamità naturali ci sono l’opposizione costante alle infrastrutture e l’abiura degli investimenti
Il crollo del Ponte Morandi, più di un anno fa, e ancora oggi quello del viadotto sulla Torino-Savona hanno riaperto il dibattito sul valore delle infrastrutture e su come evitare di attivare un pericoloso dualismo tra la necessità di manutenere le opere esistenti e l’indubbia urgenza di nuove opere. Dall’inizio della crisi del 2008 l’Italia ha registrato un gap di investimenti di circa 85 miliardi di euro.
Gli investimenti pubblici sono diminuiti di oltre un terzo, mentre quelli per le infrastrutture, se nel 2009 hanno raggiunto quota 29 miliardi, dal 2017 ammontano a soli 16 miliardi all’anno.
I comuni hanno ridotto la spesa per investimenti in opere pubbliche e le regioni hanno sottoutilizzato i fondi disponibili contro il dissesto
Questo è il risultato di specifiche scelte di politica di bilancio, che hanno portato il paese a contenere la spesa, agendo per lo più sulla componente in conto capitale e meno su quella corrente. Una posizione che ha segnato negativamente la dotazione infrastrutturale e logistica nazionale. Alla ripresa economica italiana, infatti, manca il contributo fondamentale del settore delle infrastrutture. Non a caso, la programmazione di un grande piano infrastrutturale, rappresenta una delle quattro misure di policy individuate dal centro studi di Confindustria per avviare un processo di crescita del paese.
Una carenza di investimenti, infatti, abbassa il pil corrente, compromettendo la crescita e la competitività nel medio termine. Per esempio, come analizzato nel Rapporto “I-Volution, Infrastrutture che Innovano”, presentato in Parlamento dall’Osservatorio sulle Infrastrutture di Confassociazioni, ci sono evidenti deficit nella dotazione e qualificazione delle grandi reti di comunicazione italiana. Dal punto di vista della logistica, poi, emergono una limitata capacità intermodale dei grandi nodi di scambio infrastrutturali (porti, aeroporti, interporti) e urbani, e una difficile interconnessione tra le reti e tra i livelli stessi di rete (da nazionale a locale).
In un mondo sempre più globalizzato e connesso, quindi, l’Italia quindi corre il rischio di rimanere indietro in assenza di un piano di investimenti in infrastrutture materiali e immateriali. Senza il crollo degli investimenti (60 miliardi di euro) l’economia del nostro paese avrebbe recuperato in media nei dieci anni di crisi quasi un punto di pil all’anno.
Se dal 2008 al 2016 il problema principale delle stazioni appaltanti pubbliche era quello di individuare le risorse economiche da destinare agli investimenti, dal 2016 paradossalmente il tema si è spostato sulla reiterata incapacità delle amministrazioni locali di programmare, pianificare ed eseguire gli interventi, vanificando nei fatti importanti misure di rilancio per le infrastrutture previste dal governo Gentiloni già nella programmazione di Bilancio del 2017 (più 23 per cento di risorse), e confermate dal governo Conte 1.
Gli investimenti pubblici sono diminuiti di oltre un terzo, quelli per le infrastrutture ammontano a soli 16 miliardi all’anno
I comuni (la cui imposizione fiscale nell’ultimo decennio è aumentata del 108 per cento per fare fronte alla diminuzione sempre maggiore dei trasferimenti dallo stato) hanno ridotto nel triennio 2017-2019 la spesa per investimenti in opere pubbliche di circa 2,5 miliardi. Un risultato fortemente negativo dopo un 2016 che si era chiuso con una diminuzione di spesa di 1,7 miliardi, nonostante la possibilità concessa dall’allora governo Renzi ai comuni virtuosi di andare in deroga al Patto di stabilità.
L’impossibilità di trasformare in cantieri la maggiore disponibilità di risorse in capo agli enti locali pone quindi il vero tema sul quale dovremmo concentrare la nostra attenzione, che è quello delle competenze e della capacità di programmazione, argomenti complicati da affrontare soprattutto nei Comuni di dimensioni più modeste (in Italia 5.000 Comuni amministrano poche migliaia di cittadini) o nelle stesse Province, bloccate da una riforma imperfetta.
Non fanno eccezione anche le regioni. Dal 2016 esiste un Fondo progettazione contro il dissesto che, a fronte di una dotazione di 100 milioni di euro, avrebbe dovuto determinare sui territori investimenti per 2,4 miliardi di euro. Di quegli stanziamenti le regioni ne hanno utilizzato solo il 19 per cento, perché non sono stati presentati i progetti da trasformare in cantiere.
Foto MDidier
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C’è poi il nodo delle concessioni autostradali. Come Osservatorio abbiamo chiesto da due anni (ben prima del crollo del ponte Morandi) ai ministri delle Infrastrutture di procedere alla revisione dei contratti, alla luce della proposta di linea guida Anac sul monitoraggio delle amministrazioni aggiudicatrici sull’attività dell’operatore economico nei contratti di partenariato pubblico-privato. Questa operazione è indispensabile per normare la redditività finanziaria del concessionario e al contempo non infierire sulla capacità di spesa degli utenti finali, diminuita anche per effetto dell’introduzione dell’euro.
Per tornare a investire serve rafforzare i ruoli tecnici nelle pubbliche amministrazioni, altrimenti saremo incapaci di farlo
La linea guida Anac interviene proprio sulla revisione dei contratti delle concessioni e sulla disciplina dei contratti di partenariato pubblico-privato, definiti all’art. 3 del Decreto Legislativo 18 aprile 2016, n. 50 (il cosiddetto Codice dei Contratti).
In particolare nella II parte della linea guida si individuano proprio gli strumenti per favorire non solo il controllo e il monitoraggio economico delle attività del concessionario, ma soprattutto indica quale direzione intraprendere nel caso di revisione del contratto, causata dall’inadempienza o inefficacia delle clausole contrattuali preesistenti, perché, per esempio, sono venute meno le modalità che regolavano il rapporto ex ante.
L'inaugurazione del ponte Morandi nel 1967 era la sintesi di un paese che sperimentava e innovava. Negli ultimi 30 anni, invece, l’Italia ha realizzato solo il 13 per cento di nuove infrastrutture, e in prevalenza sono state le nuove arterie ferroviarie a modificare la mobilità nel nostro paese, ridisegnando anche l’urbanizzazione tra le grandi città e i cluster di sviluppo economico lungo la direttrice Napoli-Roma-Bologna-Milano.
Oggi, invece, l’opposizione costante alle infrastrutture è diventata la cifra del paese, come hanno testimoniato i casi eclatanti del Tap, della Tav e della stessa Gronda di Genova, mentre saremmo dovuti scendere in piazza per chiedere l’immediato completamento di un’opera strategica come il Mose.
Senza il crollo degli investimenti l’economia avrebbe recuperato, in media, quasi un punto di pil all’anno nei dieci anni di crisi
Le infrastrutture non sono più percepite come metafora dello sviluppo, ma al contrario vengono osteggiate perché costituirebbero il presupposto della corruzione. L’Italia del boom era identificata con le sperimentazioni architettoniche, che avevano la capacità di osare e di far sognare, come testimoniano gli straordinari manufatti della Bologna-Firenze, un’infrastruttura simbolica dell’Italia di allora che sfidava il futuro. Quei ponti, per la bellezza, l’ingegno e la tecnologia, dovrebbero essere catalogati come patrimonio Unesco.
In Italia esistono 1,5 milioni di ponti (7.317 dei quali sono gestiti dai 19 gestori autostradali), il 2 per cento dei quali è costantemente monitorato e controllato. Gli altri costituiscono una grande incognita e in prevalenza si trovano su tratti stradali gestiti da enti che non dispongono di risorse e personale, come avviene del resto anche con il ministero delle Infrastrutture. Sui 7.000 ispettori del ministero che dovrebbero operare a pieno regime per verificare che vengano svolti i controlli, sono solo qualche centinaia quelli effettivi. La tragedia del ponte di Genova e il crollo del viadotto sulla Torino-Savona, quindi, siano il monito per superare gli ostracismi beceri e ottusi che hanno bloccato il Paese dopo Tangentopoli.
Per tornare a investire nelle infrastrutture occorre, però, rafforzare i ruoli tecnici nelle pubbliche amministrazioni, che devono tornare ad avere nelle strutture tecniche allargate dei veri e propri centri di competenza capaci di fare programmazione e monitoraggio e controllo, dove possano finalmente lavorare insieme non solo ingegneri e architetti, ma tutte quelle competenze che concorrono alla realizzazione e alla comunicazione dei progetti innovativi, si pensi alle infrastrutture digitali.
Gli esempi positivi anche nella Pa italiana non mancano, come insegnano i casi di Rfi, Italferr, Anas, Agenzia del Demanio, i cui bandi prevedono delle premialità per chi progetta in Bim, un plus che tra entro il 2025 sarà considerato ordinario, impattando di fatto sulla capacità organizzativa delle strutture tecniche di progetto.
Il pericolo, infatti, è che senza un’adeguata riforma della Pa, interventi normativi come quota 100, stanno svuotando gli enti locali delle poche competenze rimaste soprattutto nelle aree tecniche. Si creeranno, quindi, delle Amministrazioni di serie A, efficienti, e altre di serie B, che non dispongono di competenze tecniche, e che non saranno pertanto più in grado di investire nemmeno sulle manutenzioni delle opere già realizzate, come sta già accadendo in molti comuni di dimensioni medie e nelle stesse Province, chiamate a gestire un settore nevralgico come la viabilità senza praticamente avere a disposizione risorse economiche.
Stefano Cianciotta è presidente dell'Osservatorio Infrastrutture Confassociazioni
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