
Florence Fuller, “Inseparabili”, 1900
Buone ragioni per dire: scemo chi non legge
Christopher Lasch, “La ribellione delle élite”
Feltrinelli, 216 pp., 7,65 euro
Quando nove persone sono d’accordo su qualcosa, allora è compito della decima persona contraddirle, anche sostenendo un’idea improbabile. E’ la regola del “decimo uomo” che, nei libri di fantascienza e spesso nella realtà, ha salvato uno stato come Israele dalla distruzione assicurata a opera di stati e gruppi limitrofi malintenzionati. Il confronto pubblico cui abbiamo assistito nel 2015 consiglierebbe di applicare tale regola al dibattito sul “populismo”. Se tutti i movimenti e i partiti che disgustano il nostro establishment intellettuale e giornalistico sono definiti un po’ sommariamente “populisti”, se tutto ciò che tenta di esprimere il senso di tradimento che alberga in milioni di europei è bollato tout court come “populismo”, è opportuno chiedersi cosa direbbe il “decimo uomo”. Probabilmente sosterrebbe la tesi che quella in corso è invece “la ribellione delle élite” rispetto ai popoli di riferimento, insomma un “tradimento della democrazia” a opera delle stesse classi dirigenti occidentali. Questo perlomeno argomentò Christopher Lasch (1932-1994), storico e sociologo dell’Università di Rochester nello stato di New York, in un libro uscito nel 1995 in America con il titolo “The Revolt of the Elites and the Betrayal of Democracy”, poi tradotto in italiano da Feltrinelli (meritoriamente, se non fosse per la scelta di scrivere “liberale” ogni volta che nell’originale c’era scritto “liberal” nel senso di “progressista”). Sarebbero quelle élite che definiscono i temi del dibattito pubblico – secondo Lasch – ad aver perso il contatto con la gente normale. Sempre esistite, queste élite infatti non sarebbero mai state così “isolate” dagli altri, culturalmente e fisicamente. La loro “visione turistica del mondo”, insieme a una declinante “capacità di autogoverno” delle comunità (c’entra lo statalismo) e a una “degenerazione” del dibattito pubblico inquinato dal politicamente corretto, fanno dire a Lasch che “una volta era la ‘ribellione delle masse’ che minacciava l’ordine sociale e le tradizioni di civiltà della cultura occidentale. Ai nostri tempi, invece, la minaccia principale sembra venire da chi si trova al vertice della gerarchia sociale, non dalle masse”. Altro che populisti.
Marco Valerio Lo Prete
LRNZ, “Golem”
Bao Publishing 2014, 256 pp., 25 euro
Leggi “graphic novel” e subito storci il naso, perché pensi a quel fenomeno malriuscito che è il tentativo del vecchio mondo dei fumetti di accreditarsi come cultura alta, e che in Italia ha subìto una declinazione invariabilmente salottiera e festivaliera. Da noi gli autori di graphic novel parlano di Pasolini, ed è per la sua estraneità da questo mondo che “Golem”, fumetto di LRNZ (al secolo Lorenzo Ceccotti) uscito all’inizio del 2015, merita una menzione. “Golem” è facilmente la miglior graphic novel italiana dell’anno, per tutte le ragioni che di solito non piacciono ai cultori della graphic novel. E’ un’opera pensata anzitutto per divertire, con una trama hollywoodiana – un ragazzo e una ragazza si incontrano in un’Italia futuristica e distopica, entrambi scopriranno di essere speciali e diventeranno protagonisti di vicende di portata epocale – che diventa via via più complessa. E’ un fumetto di fantascienza ambientato nell’Italia del futuro, che riesce nell’impresa ardua non solo di risultare credibile, ma di costruire intorno ai personaggi un mondo che si regge in piedi da solo. E’ un’opera ambiziosa, che cerca di realizzare qualcosa di nuovo e grande anziché buttarsi nel passato o nell’intimismo. I disegni sono bellissimi e barocchi, debitori del tratto giapponese ma al tempo stesso originali, e l’immaginario di LRNZ è capace come pochi in Italia di essere innovativo, e questo basta per compensare le pur presenti debolezze e l’eccessiva political correctness della trama. Regalare graphic novel per Natale da qualche tempo è molto chic, chi scrive ha sempre fatto figuroni regalando “Una ballata del mare salato” di Hugo Pratt (Corto Maltese, successo garantito). Chi riceverà “Golem” resterà spiazzato all’inizio, vi richiamerà soddisfatto qualche giorno dopo.
Eugenio Cau
Macrobio, “Commento al sogno di Scipione"
Bompiani 2007, 916 pp., 31 euro
Un documento esemplare della cultura romana del quinto secolo dell’èra volgare. Macrobio è il celeberrimo autore dei “Saturnaliorum Convivia”, l’erudito che ha conservato ai posteri l’essenza metafisica di una civiltà aggredita dall’interno e dall’esterno, fiaccata dal fanatismo pandemico e assediata da orde di barbari dilaganti. Una frattura irrecuperabile s’era ormai prodotta all’interno della civiltà romano-italica così come nel cuore dell’uomo: scisso da se stesso, immemore delle sue origini stellari. Ma di tutto questo non v’è traccia, nell’opera di Macrobio, tutta pervasa invece da una calma olimpica e celeste. Se i “Saturnalia” sono il compendio piano di un’immensa teologia solare, nel “Commento al sogno di Scipione” l’autore entra in rapporto con il testo di Cicerone per rinnovellare l’incontro con la scienza del pitagorismo italico. Ogni frase è cesellata intorno all’esigenza di restituire la giustezza della cosmogonia nostra, la conoscenza empirica dell’immortalità animica (per chi se la conquisti, naturalmente), la penetrazione nel mistero dell’armonia universale, del fuoco celeste che irradia le sfere di cui si compone l’essere eterno. Dice Macrobio: “Gli Antichi chiamarono la sfera celeste Giove e, presso i teologi, Giove è l’Anima del Mondo. Donde l’espressione: da Giove è il principio, o Muse, tutto è pervaso da Giove”. Il testo latino a fronte non fa che impreziosire la bellezza del verso.
Alessandro Giuli
Paolo Nori, “Manuale pratico di giornalismo disinformato”
Marcos y Marcos 2015, 208 pp., 15 euro
Verrebbe da consigliarlo anche solo per il titolo, che rimanda sardonico al “mestiere di giornalista che io avevo cominciato a farlo nel momento che i giornali la gente smetteva di leggerli”. Verrebbe da non interrompere la lettura fino all’ultima riga, tutta di filato, lasciandosi cullare e prendere sempre in controtempo da quella sorta di talkin’, di blues emiliano, che è la scrittura sonora di Paolo Nori. Scrittura che è meglio avere un orecchio cisalpino per sentirla senza fare sforzo, ma anche a non avercelo – i casi della vita – la si percepisce subito: perché non è in nulla autoctona, soffocata di localismo, ma è rarefatta, filtrata da Checov e Tolstoj, consapevole di tutti i tic della letteratura. E sempre sulla nota costante, il basso continuo e ironicamente dolente, della parodia. Parodia dello scrittore in crisi di scrittura, ma votato al culto narcisista dall’autofiction. Anzi, alla francese: della “otofiksjò”. Il monologo fiume di Ermanno Baistrocchi, alter ego ricorrente di Nori anche in altri libri, che piuttosto di scrivere un nuovo romanzo dice a se stesso, come Bartleby: “Non voglio”. Ma poi gli capita quella cosa, che non l’avrebbe mai detto, di trovarsi con un morto steso sul tavolo della sua cucina. E anche per il giornalismo disinformato, o per lo scrittore narcisista in cerca di “otofiksjò”, c’è “il fatto che il mondo, quando succede un delitto, o anche una disgrazia, diventa più mondo”. Il pubblico più arguto del previsto delle conferenze letterarie; le mail degli allievi delle scuole di scrittura e il grottesco mondo del web; la Storia che sfugge, e i fatterelli di Casalecchio sul Reno pure.
Maurizio Crippa
Anna Ottani Cavina, “Terre senz’ombra”
Adelphi 2015, 472 pp., 50 euro
Il paesaggio sta al paese come il personaggio alla persona in teatro. Questo librone Adelphi, illustrato e scritto con la cura dell’amore e dello stupore, ti guida nei frammenti importanti della pittura di paesaggio tra Seicento e Settecento. I pittori scrivono la loro drammaturgia, sul palcoscenico della natura si rappresenta una recita in cui l’occhio oggettiva, l’anima percepisce, i sensi restituiscono e deformano, la ragione si fa scuola e canone, afferma il suo diritto e diventa critica e storia della pittura, critica e storia di sé stessa, diario di viaggio in Italia. Anna Ottani Cavina ha lavorato di bulino nelle migliori botteghe dell’interpretazione, ha composto mostre memorabili in Europa e nel mondo, ha contribuito alla riscoperta di un talento en plein air senza pari, quel Thomas Jones, gallese, che nel Grand Tour tra Roma, i Castelli, Napoli e Pozzuoli, ma sopra tutto incantato e incantando davanti ai muri di Napoli, ha dipinto un bello mai visto prima e che non ebbe mercato né fortuna, salvo quelli postumi. La Ottani Cavina scrive che il paesaggio, in confronto alle pitture di storia, di mitologia, di eroi e di metamorfosi divine, è un asse laterale da cui guardare l’arte, ma aggiunge che c’è un momento evidente tra Sei e Settecento in cui il paese diventa un paesaggio, e il mondo dipinto divorzia da quello vissuto per la mediazione degli artisti; e lì, frammento dopo frammento, una come lei è vocata a cercare e mettere a fuoco, operandosi di cataratta come i pittori girovaganti per l’Italia secondo Jacques-Louis David, gli indizi di modi inauditi di vedere e rappresentare le cose, la natura, le città e altre figure di teatro in cui la maschera del ritratto cede il passo alla quinta scenografica. Si va dalla Fuga in Egitto notturna di Adam Elsheimer, con i misteri di terra di acqua di via lattea e di due lune, alla costruzione di una strada in tersa luce mattutina e in assetto da prima rivoluzione industriale di Claude-Joseph Vernet. Sarete frastornati dalla forza di Thomas Jones viaggiatore, e viaggerete per cataloghi del gusto e dell’intelligenza visiva la più ardita.
Giuliano Ferrara
Luca Pani e Gilberto Corbellini, “Imperfezioni umane. Cervello e dissonanze evolutive: malattie e salute tra biologia e cultura”
Rubbettino 2015, 230 pp., 19 euro
Vi siete mai chiesti: chi siamo? Immagino di sì, è una domanda legittima anche se parecchio inflazionata. Per meglio rispondere – ed evitare quelle fastidiose questioni ontologiche – vi propongo di cambiare la domanda: come siamo arrivati fin qui? Un libro indaga e propone alcune risposte. Imperfezioni umane, Luca Pani e Gilberto Corbellini (Rubbettino). Lo strumento di indagine è la biologia evolutiva. L’ipotesi di lavoro è questa: ci siamo formati – e per un milione e mezzo di anni – in un ambiente completamente diverso dal nostro. Avevano altri obiettivi – cacciare, mangiare – e diverse contingenze – ci relazionavamo con poche persone e soprattutto quell’ambiente era, è stato, stabile. Poi, dopo la recente scoperta dell’agricoltura, le cose cambiano – l’ambiente, il surplus di produzioni, le relazioni umane. Tuttavia i nostri neuroni rimangono gli stessi – e sebbene il cervello sia dotato di plasticità- ora devono controllare e relazionarsi con più cose. Da qui le dissonanze, le imperfezioni. Alcuni caratteri che in passato offrivano vantaggio selettivo ora possono portare svantaggi. Vengono così, e sotto questa prospettiva esaminati (declinati) i problemi che derivano dall’adozione di nuovi stili di vita (cosa e come e quando dovremmo mangiare?), perché ci ammaliamo (cos’è lo stress e cosa sono i disturbi comportamentali?). Il libro, tuttavia, è anche un affascinante riassunto – storico, antropologico – di come siamo arrivati fin qui, cosa siamo riusciti a migliorare e quali sono i costi che le nostre fragilità umane – troppo umane – ci costringono ad affrontare.
Antonio Pascale
Marco Pastonesi, “Pantani era un dio”
66thand2nd, 2014, 245 pp. 16 euro (ebook 7,99 euro)
Pantani, la sua storia, le sue vittorie, le sue cadute, le sue sconfitte. Pantani era un dio, della bicicletta sicuro, perché nessuno come lui è riuscito a unire tutti, quando vinceva sia chiaro, perché dopo Madonna di Campiglio non è stato più così. Lì si sono visti i pantaniani, i tifosi, quelli che lui è la bici, il ciclismo e l’andare in salita. Erano quelli del non ci voglio credere, non ci posso credere. Gli altri erano quelli degli applausi quando tutto andava bene, del Giro-Tour 1998, del Giro 1999 dominato, vittorie su vittorie, scatti su scatti, maglia rosa. Almeno sino a Madonna di Campiglio. Il resto è una spirale di solitudine e di dolore, di autodistruzione che poi chissà se lo è stata davvero in quella notte maledetta di Rimini. Su Pantani si può essere difensori talebani, accusatori critici. Oppure Marco Pastonesi, che ne ripercorre storia, ascesa, apice e discesa facendo parlare chi Pantani lo ha visto, vissuto, amato, applaudito, sorretto. I gregari. Gli unici che forse possono spiegare perché Pantani è stato Pantani, perché quello scalatore mingherlino, con pochi capelli e la sofferenza nel volto sia riuscito a rendere tanto magico questo sport, sia riuscito per un attimo a riportare il ciclismo fuori dalla nicchia dei ciclisti, degli appassionati da divano o da bicicletta. Pantani era un dio è un racconto a episodi, un'insieme di interviste, parole, racconti, ricordi. E’ tutto, almeno per chi Pantani lo ha amato.
Giovanni Battistuzzi
Joseph Roth, “La cripta dei cappuccini”
Adelphi 2007, 196 pp., 10 euro (ebook 3,99 euro)
L’immagine finale, con Trotta che guarda mesto le austere tombe degli Asburgo, è un capolavoro che ha pochi pari nella letteratura del Novecento. Non v’è stata penna migliore di quella di Joseph Roth nel cantare malinconicamente la fine di un mondo sopravvissuto per secoli a guerre, pestilenze, rivoluzioni. Mai avrebbero immaginato i sudditi dell’Austria guidata con piglio pratico dai sovrani illuminati e dall’eterno Francesco Giuseppe, che quel cosmo che mescolava insieme etnie e religioni diverse l’una dall’altra si sarebbe disfatto in chilometri di trincee scavate nella roccia, da un fronte all’altro d’Europa. Forse solo Stefan Zweig può competere con Roth, benché le sue opere, poi, si discostino da quel canto luttuoso calato sulla decrepita corte viennese. “La Cripta dei cappuccini” è il compendio della gloria tramontante e della fine miserabile dell’Impero; parabola vissuta con gli occhi del giovane protagonista, erede di una umile famiglia nobilitata da Francesco Giuseppe (un Trotta gli salvò la vita a Solferino). E’ spensierato, il ragazzo, sa quel che accade nelle periferie, gli sono note le tensioni lungo le frontiere del mondo asburgico, ma anch’egli considera impossibile quel che qualcuno inizia a vaticinare: la fine di tutto. Solo quando leggerà il proclama con la chiamata alle armi, capirà. E gli anni della guerra saranno segnati da un’amarezza che poi è quella del Roth esule. E che è forse la stessa di chi oggi guarda il lento (ma progressivo) disfacimento dell’Europa così come pensata sessant’anni fa. Ed è di Roth anche la domanda finale messa in bocca a un Trotta ormai disilluso, pronunciata con lo sguardo fisso sul sarcofago del kaiser: “Dove devo andare, ora, io, un Trotta?”.
Matteo Matzuzzi
Junichiro Tanizaki, “Libro d’ombra”
Bompiani 2000, 128 pp., 8 euro
Un libro per Natale è una faccenda complicata. Sebbene quello più in tema mi sembrasse “Il conto dell’ultima cena” di Andrea G. Pinketts – tra gli scrittori più sottovalutati del panorama italiano – qualcuno mi ha spiegato che la scelta di un libro del 1998 avrebbe fatto troppo millenial. Allora mi piacerebbe parlare di un libro del 1933. In tempi natalizi, riflettere sui valori occidentali ricominciando, non so, dal cesso. Proprio così, dal gabinetto. Per Junichiro Tanizaki il bagno è il simbolo delle differenze tra oriente e occidente. Il luogo del “piacere fisiologico” che genera riflessione, ispirazione. La latrina ha bisogno dell’ombra, mentre l’occidente l’ha piastrellizzata, l’ha illuminata a giorno, fino a renderla un luogo “sconveniente, e in società si astengono persino dal nominarla”. La tualètt, per favore, no. Tanizaki dice che l’oriente di oggi (di ieri) è una società d’accatto, e ha abbandonato la penombra – che “suggerisce, evoca ma non dice” – acquisendo in modo approssimativo e goffo l’illuminazione occidentale, incompatibile con il vivere all’orientale. “La Chiave” di Tinto Brass è tratto da un altro libro di Tanizaki, e quale migliore esempio per spiegare quel sensuale vedo-non-vedo che è un modo di vivere, mica una lampadina rotta. Ps. Se vi avanza del tempo, il giorno di Santo Stefano, finite di leggere “Libro d’ombra” e iniziate di seguito il libello “Budda sorride” di Cesare Brandi, con prefazione di Alberto Arbasino, per avere pure la versione occidentale.
Giulia Pompili
Donna Tartt, “Dio di illusioni”
Bur 2014, 622 pp., 11 euro (ebook 7,99 euro)
Donna Tartt faceva leggere le bozze a un amico che era più di un amico, Brett Easton Ellis, il quale ricambiava passandole la prima stesura di “Less than Zero”. Il romanzo che ne è venuto fuori, “The Secret History” (“Dio di Illusioni” in Italia) è un trionfo di descrizioni e subordinate, un abitante del mondo dei romanzi ottocenteschi, lontanissimo dalla severa paratassi eastoniana, condensata nell’incipit memorabile: “People are afraid to merge on freeways in Los Angeles”. C’è tuttavia qualcosa di comune ai due, ed è un elemento sinistro, un pennello intinto nella parte scura della tavolozza. Forse è una certa idea della natura umana, risciacquata in una qualche soluzione di realismo cristiano. Hanno detto che “The Secret History” è prolisso, che metà delle parole sono in eccesso, ma se le pagine tengono svegli la notte dovrebbero fare monumento alla prolissità. Il fatto è che “The Secret History” ha tutto quel che serve: un omicidio, un campus del Vermont, il senso di colpa, in controluce la ricerca del senso dell’universo. Non è poco. Se ha qualcosa di troppo lo si può pure perdonare a Tartt, che allora, nel 1992, era all’esordio. Poi i personaggi. Richard Papen è fragile come un giunco, Camilla è la donna che tutti almeno una volta hanno amato. Quando bevono whisky on the rocks, e lo fanno spesso, sembra di sentire l’odore. Henry, che non è il narratore ma è il motore immobile del mondo, è una sottospecie di Stavrogin con il quale non è impossibile sentire una certa, tragica affinità.
Mattia Ferraresi
Bassam Tibi, “Euro-Islam-l’integrazione mancata”
Marsilio, 2003, 182 pp., 9,90 euro
Come ha potuto Mohammed Atta, pilota terrorista dell’11 settembre, vivere inosservato per anni e preparare l’attacco da Amburgo, nel cuore dell’Europa? La domanda è attuale e pertinente anche se sostituiamo il nome di Atta con quello di Salah Abdeslam o dei fratelli Kouachi. Il saggio magistrale di Bassam Tibi, musulmano nato a Damasco nel 1944, studioso di Islam diventato europeo per scelta nel 1962 e da allora residente in Germania, fa capire con estrema chiarezza – anche grazie a una traduzione efficace dal tedesco – il legame strettissimo tra migrazione (Igira) e disponibilità alla guerra santa (Jihad) attraverso la vocazione messianica del credente musulmano (Da’wa). E’ un fenomeno antico, con effetti orrendi in epoca moderna, che però trova l’Europa completamente incosciente e impreparata. “Il motivo di questa incapacità è che il multiculturalismo non è altro che una forma di comunitarismo che segmenta in più sistemi composti di parti che chiamo società parallele”, scrive Tibi il quale critica in particolare la mollezza tedesca. “L’etica della convinzione dei buonisti tedeschi si intensifica fino all’autorinnegamento distruttivo”. Tibi spende gran parte della trattazione a spiegare le differenze essenziali tra concetti universalmente noti – come la “tolleranza” che in occidente riguarderebbe chi la pensa in modo diverso da noi ed è diventata abnegazione mentre nell’Islam comprende la “sopportazione” soltanto dei collettivi monoteistici, cristiani ed ebrei – e dice che se non c’è una rinuncia al proselitismo, sostanza e sottofondo della dottrina dell’Igira, non c’è alcuna possibilità di integrazione dei musulmani nella società europea. E qui si salta: l’occidente rinuncia senza ottenere nulla, l’Islam non rinuncia e pretende. Questo libro spiega come e perché siamo arrivati a temere e odiare il terrore islamista che abbiamo coltivato con l’assistenza welferista oppure – è il caso preciso dell’Italia – con una politica migratoria caotica e quindi inutile che rende l’immigrazione verso il nostro paese totalmente illegale. Per cambiare le cose bisogna capirle. Questo libro che ho trovato per caso a un mercatino dell’usato è consigliato a chi abita l’Europa e a chi la governa, si spera per migliorarla. Inshallah.
Alberto Brambilla
Anthony Trollope, “Il primo ministro”
Sellerio 2014, 1128 pp., 25 euro (ebook 16,99 euro)
“Il primo ministro” di Anthony Trollope. Una sorpresa, benché da anni Antonio D’Orrico sia instancabile sponsor di questo romanziere vissuto a Londra tra il 1815 e il 1882, piena età vittoriana. Una sorta di Downton Abbey scritto però, a differenza di Fellowes, in contemporanea. Trollope racconta la politica scavando nei meccanismi di Westminster – si deve formare un complicato governo di coalizione tra Tory e Liberal – ma soprattutto racconta i politici e la classe dirigente, arrampicatori della City, duchesse di Carlton Terrace, salotti, club e sale da tè, ambizioni, intrighi amorosi delle figlie e contrastanti piani economici dei padri (i soldi sono l’assillo anche per quegli upper), e lo fa con leggerezza, zero moralismi e uno stile moderno dovuto anche alla traduzione di Rossella Cazzullo. E con uno humour mai ostentato che è d’obbligo definire british. Se ne ricava poi che il multiculti era questione attuale anche nell'Inghilterra vittoriana – il controverso Ferdinand Lopez è sospettato di essere “un ebreo mediterraneo”– mentre già nel 1876 a Londra funzionava bene la District Line della metro. “Il primo ministro” fa parte del ciclo “Pallisser novels”; tra le altre opere c'è “Orley Farm”; per D'Orrico: “Un legal thriller più avvincente di Grisham. Leggetelo, non è un consiglio, è un comandamento”. Trollope, che fu dirigente della Royal Mail, ideò le pillar box, le cassette rosse per le lettere arrivate fino ad oggi. In Italia magari avrebbe fondato un sindacato.
Renzo Rosati