Il Dio della sottomissione
Il mondo senza passato che uniforma i culti nell’ostilità per l’uomo – Non esiste opera di pura fantasia. Boualem Sansal ambienta il suo nuovo romanzo “in un remoto futuro e in un remoto universo” che immagina dominato da una religione che richiede pazienza, mansuetudine, obbedienza, che fa sentire i credenti dapprima soggiogati e poi felici, intensamente protetti e amati nella misura in cui ne sono sopraffatti. Vista la ricorrenza del precetto, questa religione potrebbe chiamarsi Sottomissione. E’ regolata capillarmente: c’è un Dio unico assoluto, Yölah, il cui profeta è Abi e il cui libro sacro è lo Gkabul; c’è un nemico inafferrabile e indefinibile – tutto ciò che è makuf – contro cui si scatenano guerre misteriose e ricorrenti. La guerra santa “trasforma credenti inutili e derelitti in gloriosi e proficui martiri”. I credenti devono pregare nove volte al giorno, si riuniscono una volta all’anno per espiare i propri peccati flagellandosi vigorosamente e si sottopongono a un pellegrinaggio verso la Kïïba, oggetto sacro dalla misteriosa natura. Il culto viene praticato nella mockba, dove si ascolta la predicazione dei mockbi i quali propugnano il rihad e hanno diritto a sgozzare i condannati a morte (poiché “sgozzare non è uccidere ma esaltare”); le esecuzioni capitali, saggiamente, si tengono allo stadio.
C’è una città del profeta, Med Abi. Ci sono delle scuole della Parola divina e l’obbligo di versare elemosine ai poveri; le donne circolano nascoste dal burniqab in quanto “la bellezza fisica è una tara, gradita al Rinnegato, attira irrisioni e violenze”. Tutti versano denaro in abbondanza nelle casse teocratiche e tutti vengono spinti dalle parole di Yölah a diventare valorosi combattenti. A ciascun credente viene attribuito un voto all’interno del Libretto del Valore, che resta per tutta la vita una carta d’identità che definisce le gerarchie della sottomissione; tutto è vigilato da una Giusta fraternità, vagliato da un Consiglio di correzione e risolto dai Credenti giustizieri volontari. E’ una religione che consiste nel proclamare che non vi è Dio all’infuori di Yölah e che Abi è il suo delegato; è una rivelazione che non richiede fede ma solo sottomissione perché è una, unica e universale; è un culto in cui ogni peccato è mortale ma in cui è consentito convolare a settime nozze con una graziosa ragazzina di nove anni.
Il 2084 non è l’anno in cui è ambientato il romanzo ma la data di un lontano passato di cui si è perso il conto. Nel 2084 è stata definitivamente vinta la guerra santa (all’ennesimo tentativo, specie dopo i grandi attacchi del 2022 e del 2050) ponendo tutto il mondo entro i confini della teocrazia chiamata Abistan, dal nome del profeta; un mondo senza frontiere o che – qualora una frontiera ci fosse, ipotetica – comunque non verrebbe abbandonato da nessuno perché nessuno vuole correre verso il nulla. Così com’è neutralizzato lo spazio, non c’è tempo. Esso è “uno, indivisibile, immobile e invisibile, l’inizio è la fine e la fine è l’inizio e oggi è sempre oggi”; è un tempo religioso immoto la cui unica eccezione è il 2084 dal quale non si riesce a stabilire la distanza perché il passato è un infedele e tutto ciò che poteva essere esistito prima dell’avvento dell’universale diffusione dello Gkabul era fasullo e va distrutto. Non essendoci passato, non c’è nemmeno storia; essa anzi è sottoposta, in quanto storia sacra, a una continua riscrittura che porta gli abistani a ritenere che la memoria li inganni spesso. “In un mondo perfetto non c’è futuro, non c’è evoluzione, non c’è scienza; c’è una Verità, unica ed eterna, e sempre, accanto, sta l’onnipotenza che veglia su di lei”.
E’ facile comprendere su cosa si fondi questa ridda di enigmi: “2084” fa costante riferimento a George Orwell, sin dal titolo, in particolare nei concetti di storia continuamente “riscritta e suggellata per mano di Abi” e nella presenza di una Giusta fraternità vigile come un Grande Fratello. Altro punto in comune con “1984” è l’istituzione di una neolingua, l’Abiling, che è l’unica non sacrilega e su cui volteggia l’interrogativo chiave del romanzo, poiché ogni religione ha bisogno di raccontare una rivelazione: “Che rapporto c’è fra religione e lingua? La religione è concepibile senza lingua sacra? E’ la religione a crearsi un linguaggio speciale per esigenze di mistificazione e manipolazione mentale oppure è la lingua che, una volta raggiunto un alto livello di perfezione, si inventa un universo ideale e fatalmente lo sacralizza? In altri termini, la religione è intrinsecamente orientata alla dittatura?”. Di sicuro, spiega il romanzo, la religione è nemica della ricostruzione storica, tanto che solo i ricercatori più agguerriti riescono a risalire fino al lontano 2084; cosa ci sia prima non si sa e tutti vivono in una santa ignoranza che permette loro di perpetuare le leggi di “1984”. “La guerra è pace, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza”, scriveva Orwell. “La morte è vita, la menzogna è verità, la logica è l’assurdo”, aggiunge Sansal.
Se nessuna opera è di fantasia, quale peso bisogna dare all’antifrasi che l’autore infila nell’avvertenza? “Dormite tranquilli”, ci rassicura, “è tutto assolutamente finito e il resto è sotto controllo”. Più preoccupante sembra la considerazione preliminare posta in esergo, secondo cui la religione fa “detestare l’uomo e odiare l’umanità”. Questo presuppone che esista una religione generica sotto cui tutte le fedi ricadono, uniformate nell’ostilità per l’uomo. Uno di principi della sottomissione in effetti è che “all’uomo non è dato sapere cosa sia il male e cosa sia il bene, egli deve sapere che Yölah e Abi operano per la sua felicità”; a Ratisbona tuttavia un Papa disse l’esatto contrario. Ma in 2084 non c’è traccia del cristianesimo. Dev’essere una delle religioni travolte da un grosso mutamento climatico che a un certo punto della storia ignota aveva stravolto la geografia del pianeta.
Antonio Gurrado
Il pellegrinaggio era l’unico pretesto legittimo per circolare nel paese, a parte le esigenze burocratiche e commerciali per le quali gli interessati disponevano di un salvacondotto che andava vidimato a ogni tappa della missione. Nemmeno questi controlli che si ripetevano all’infinito e mobilitavano nugoli di addetti e controllori avevano una ragion d’essere, erano un retaggio di qualche epoca dimenticata. Il paese viveva guerre ricorrenti, spontanee e misteriose, questo era certo; il nemico era ovunque, poteva irrompere da est o da ovest quanto da nord o da sud, si stava all’erta, non si sapeva che faccia avesse né cosa volesse. Lo si chiamava il Nemico, con la maiuscola espressa dal tono di voce, e tanto bastava. A quanto si crede di ricordare, un giorno fu annunciato che non era bene chiamarlo in un altro modo, e l’ammonimento era parso legittimo e talmente ovvio, non c’è alcun motivo ragionevole di dare un nome a qualcosa che nessuno ha mai visto. Il Nemico assunse una dimensione mitica e terrificante. Finché, senza alcun preavviso, la parola Nemico scomparve dal lessico. Avere nemici è un’ammissione di debolezza, la vittoria o è completa o non è tale. Si parlava della Grande Miscredenza, si parlava dei makuf, neologismo che designava rinnegati invisibili e onnipresenti. Al nemico esterno si era sostituito il nemico interno, o viceversa. Poi venne il tempo dei vampiri e degli incubi. In occasione delle cerimonie solenni si evocava un nome gravido di tutte le paure, lo Shaitan. Si diceva anche lo Shaitan e la sua congrega. Alcuni l’hanno interpretato come un altro modo per dire il Rinnegato e i suoi, espressione che la gente capiva piuttosto bene. Non è tutto: chi pronuncia il nome del Maligno deve sputare per terra e ripetere tre volte la formula consacrata: “Che Yölah lo bandisca e lo maledica!”. In seguito, superati ulteriori impedimenti, si diede finalmente al Diavolo, al Maligno, allo Shaitan, al Rinnegato, il suo vero nome: Balis, e i suoi adepti, i rinnegati, divennero i balisiani. Così sembrava tutto più chiaro, ma per molto tempo, comunque, ci si continuò a chiedere come mai fossero stati usati per un’eternità tanti falsi nomi.
La guerra fu lunga, e più che terribile. Qua e là, anzi ovunque a dire il vero (ma è probabile che alla guerra si siano aggiunte varie sciagure, terremoti e altre calamità), se ne vedono le tracce religiosamente conservate, allestite come installazioni artistiche di enormi proporzioni esposte al pubblico: complessi di edifici sventrati, muri crivellati, interi quartieri sepolti sotto le macerie, carcasse eviscerate, enormi crateri trasformati in immondezzai fumanti o putride paludi, mostruosi cumuli di ferraglie contorte, dilaniate, fuse, nelle quali si vanno a leggere segni e, in certi luoghi, grandi aree proibite, di varie centinaia di kilosicca o shabir quadrati, cinte da rozze palizzate nei luoghi di passaggio, a tratti divelte, territori spogli, spazzati da venti gelidi o torridi, che sembrano essere stati teatro di eventi al di là dell’umana comprensione, pezzi di sole caduti sul pianeta, magie nere che abbiano scatenato fuochi infernali, e chissà che altro, poiché tutto, terra, rocce, opere di mano dell’uomo, è vetrificato in profondità, e quel magma iridescente emette un crepitio acutissimo che fa rizzare i peli, ronzare le orecchie, impazzire il ritmo cardiaco. Il fenomeno attrae i curiosi, la gente si affolla intorno a quegli specchi giganteschi e osserva divertita i peli rizzarsi sull’attenti, la pelle arrossarsi e riempirsi di bolle a vista d’occhio, il naso sanguinare a goccioloni. Che chiunque abiti quelle regioni, uomo o animale, soffra di malattie inaudite, che la sua prole venga al mondo con ogni deformità possibile e che tutto ciò sia rimasto senza spiegazione non ha suscitato spavento, si è continuato a ringraziare Yölah per i suoi doni e a lodare Abi per la sua affettuosa intercessione.
Cartelli informativi posizionati in punti strategici spiegavano che dopo la guerra, denominata Shar, la Grande Guerra santa, le distruzioni si estendevano all’infinito e i morti, novelli martiri, si contavano a centinaia di milioni. Per anni, per interi decenni, per tutta la durata della guerra e anche molto dopo, uomini grandi e grossi hanno lavorato a raccogliere i cadaveri, trasportarli alla meglio, accatastarli, cremarli, trattarli con la calce viva, nasconderli in trincee senza fine, ammucchiarli nelle viscere di miniere abbandonate, in grotte profonde poi richiuse con la dinamite. Un decreto di Abi ha autorizzato per il tempo necessario queste pratiche, ben lontane dal rituale funerario del popolo dei credenti. Raccogliere e cremare cadaveri sono stati a lungo mestieri in voga. Poteva dedicarvisi chiunque avesse muscoli e una schiena robusta, a tempo pieno o occasionalmente, ma alla fine sulla breccia rimasero solo quelli davvero ben piantati.
Andavano da una regione all’altra con i loro apprendisti e i loro attrezzi da lavoro, un carretto a mano, corde, un paranco e una lanterna e, per chi era meglio equipaggiato, un animale da tiro, acquistavano una concessione adeguata alle loro forze e si mettevano all’opera. Nella memoria dei vecchi è rimasta l’immagine di quegli austeri e placidi colossi che transitavano in lontananza, per sentieri e valichi, con lo spesso grembiule di cuoio che batteva sulle cosce massicce, trascinando carretti stracarichi, accompagnati dagli apprendisti e talvolta dalla famiglia. L’odore della loro professione li seguiva, li precedeva, appiccicandosi ovunque, tanfo emetico di carne putrefatta, di grasso bruciato, di effervescente calce viva, di terra contaminata, di gas penetranti. Con il tempo quegli uomini grandi e grossi sono scomparsi, il paese era ormai bonificato, rimaneva solo qualche raro vecchio taciturno e lento che lavorava a giornata per due soldi nei dintorni degli ospedali, dei ricoveri e dei cimiteri. Triste fine per gli eroici netturbini della morte.
Quanto al Nemico, era semplicemente scomparso. Non si trovò mai alcuna traccia del suo passaggio nel paese, della sua miserabile presenza sulla terra. Stando all’insegnamento ufficiale, la vittoria su di lui fu “completa, definitiva, irrevocabile”. Yölah aveva deciso, aveva donato al suo popolo più che mai credente la supremazia, promessa fin dalle origini. Una data si era imposta, chissà come o perché si era stampata nel cervello di tutti quanti e compariva sui cartelli commemorativi affissi accanto alle vestigia: 2084. Aveva a che fare con la guerra? Forse. Non si precisava se riguardasse l’inizio o la fine o un particolare episodio del conflitto. La gente aveva formulato un’ipotesi, poi un’altra, più ingegnosa, in relazione con la santità della propria vita. La numerologia divenne uno sport nazionale, si sommò, si sottrasse, si moltiplicò, si fece tutto ciò che era possibile fare con i numeri 2, 0, 8 e 4. Per qualche tempo si affermò l’idea che il 2084 fosse semplicemente l’anno di nascita di Abi, o quello in cui fu illuminato dalla luce divina, al compimento del suo cinquantesimo anno di età. Sta di fatto che ormai nessuno dubitava che Dio gli offrisse un ruolo nuovo e unico nella storia dell’umanità. Proprio a quell’epoca il paese, detto semplicemente “paese dei credenti”, fu chiamato Abistan, un bellissimo nome, usato dalle autorità, Onorevoli e Adepti della Giusta Fraternità e membri dell’Apparato. Il popolino aveva mantenuto la vecchia denominazione di “paese dei credenti” e nella conversazione quotidiana, dimenticando rischi e pericoli, andava per le spicce, diceva “il paese”, “la casa”, “da noi”. Lo sguardo dei popoli è così, noncurante e davvero poco creativo, non vede piú in là del proprio uscio. Sembrerebbe quasi una forma di cortesia: l’altrove ha i suoi proprietari, guardarlo equivale a violare un’intimità, infrangere un patto. Definirsi abistanese, abistani al plurale, aveva una connotazione ufficiale ansiogena, che evocava seccature e richiami all’ordine, quando non citazioni in giudizio, la gente parlava di sé dicendo “la gente”, convinta che questo bastasse per riconoscersi.
A un certo punto la data è stata messa in relazione con la nascita dell’Apparato e, in seguito, con quella della Giusta Fraternità, la congregazione di quaranta dignitari scelti da Abi in persona fra i credenti più fidati, dopo che egli stesso era stato eletto da Dio per assisterlo nel colossale compito di governare il popolo dei credenti e condurlo tutto quanto nell’altra vita, dove ognuno si vedrà interrogare sulle proprie opere dall’Angelo di giustizia. Veniva detto loro che in quella luce l’ombra non nascondeva nulla, era come un rivelatore. Proprio durante i cataclismi che si susseguirono senza tregua venne attribuito a Dio un nuovo nome, Yölah. I tempi erano cambiati, secondo la Promessa primordiale era nato un altro mondo, in una terra purificata, consacrata alla verità, sotto lo sguardo di Dio e di Abi, bisognava rinominare tutto, riscrivere tutto, in modo che la nuova vita non fosse in alcun modo contaminata dalla Storia precedente ormai obsoleta, rimossa come se non fosse mai esistita. Ad Abi la Giusta Fraternità attribuì il titolo umile ma così esplicito di Delegato e inventò per lui un saluto sobrio e commovente, si diceva “Abi il Delegato, che la benedizione sia su di lui” e ci si baciava il dorso della mano sinistra.
Sono circolati tanti racconti prima che tutto si estinguesse e rientrasse nell’ordine. La Storia è stata riscritta e suggellata per mano di Abi. Ciò che del tempo antico poteva essere rimasto impresso nella memoria purgata della gente, brandelli, fumo, alimentava vaghi deliri nei vecchi affetti da demenza. Per le generazioni della Nuova Era le date, il calendario, la Storia non avevano alcuna importanza, non più di quanta ne avesse la traccia lasciata dal vento nel cielo, il presente è eterno, l’oggi è sempre qui, il tempo sta tutto nella mano di Yölah, egli sa le cose, decide del loro significato e istruisce chi vuole.
Comunque, il 2084 era una data fondante per il paese anche se nessuno sapeva a che cosa corrispondesse.
Per gentile concessione di Gallimard