Il metodo Repubblica sull'islam
Ha scritto ieri Ernesto Galli della Loggia, sul Corriere della Sera, che per rispetto ai morti di Dacca, torturati e mutilati perché incapaci di ripetere a memoria qualche versetto coranico, bisognerebbe “prendere almeno un impegno di serietà e verità”. E cioè di chiamare le cose con il loro nome, di “rinunciare al buonismo di principio, ai giudizi programmaticamente tranquillizzanti, agli equilibrismi”. Che poi sono quelli che – aggiunge l’editorialista – hanno trovato ampio spazio sui “maggiori quotidiani” italiani, “quasi per farsi perdonare l’audacia di aver avanzato in un primo momento il sospetto che nella macelleria bengalese, vedi mai, la religione islamica c’entrasse qualcosa”. Giornali che, subito dopo, “si sarebbero sentiti in dovere, in omaggio a una presunta obiettività, di pubblicare articoli volti a rigettare il sospetto di cui sopra, giudicandolo calunnioso e frutto di ignoranza”. Galli della Loggia non fa nomi, ma scorrere in modo anche veloce Repubblica nei giorni immediatamente successivi alla strage fa capire che il bersaglio dello storico era proprio il quotidiano di Largo Fochetti, che all’indomani dell’assalto islamista al ristorante del quartiere diplomatico di Dacca ospitava in prima pagina editoriali su “l’odio che si serve della fede” e “l’esercito invisibile che solca il mondo”. All’interno, l’intervista alla scrittrice Taslima Nasreen, condannata a morte “dai radicali islamici del Bangladesh” e le dotte analisi sulla “radicalizzazione che avanza” nell’Asia centrale.
Il giorno dopo, quasi a compensare, ecco comparire in prima pagina Tahar Ben Jelloun – “conosciutissimo teorizzatore dell’islam tollerante all’interno di un’auspicata tolleranza universale”, osserva Galli della Loggia – a dire che “i terroristi usano l’islam ignorando le parole del Profeta”, che poi è il solito refrain buonista che va di gran moda secondo cui i terroristi che sgozzano occidentali e infedeli al grido di Allahu akbar – previe rapide interrogazioni di Corano – nulla c’entrano con il credo maomettano, che invece è per sua natura pacifico e tollerante e misericordioso. Argomento che, scrive Galli della Loggia, è “evidentemente reputato in grado di chiudere la bocca a chiunque”. Anche perché poi, Ben Jelloun, non potendo smentire l’esistenza nel libro sacro di versetti violenti, spiega che questi però sono caduti in disuso, che “non hanno più senso”. Già, chiosa l’editorialista del Corsera: “E chi è che lo decide quali versetti del Corano continuano ad avere senso e quali invece sono per così dire passati di moda?”. Evidentemente, l’esegesi coranica praticata dal commando jihadista impegnato a Dacca è ben diversa da quella di chi chiude la faccenda sostenendo, semplicemente, che “chi uccide in nome dell’islam è manipolato dai comandanti insediati in Siria e in Iraq”.