Università aperta, numero chiuso
Il test d’ingresso alla facoltà di Medicina con 62.695 aspiranti per 10.132 posti ha dato luogo alle solite proteste di associazioni studentesche e dell’immancabile Codacons “per violazione del diritto allo studio sancito dalla Costituzione”. In calo invece le denunce di domande trabocchetto o sballate. Tutto è migliorabile, quello che però pochi dicono è che il numero chiuso – presente nel resto d’Europa e con modalità diverse per tutte le facoltà in Gran Bretagna – ha dall’introduzione (1999) migliorato la qualità dello studio e soprattutto avvicinato i laureati al lavoro; il quale è garantito per cinque anni dopo il superamento del concorso di specializzazione. Quest’ultimo, da quando è nazionale, riduce favoritismi e clientele accademiche mentre i ragazzi si rendono disponibili a trasferirsi di città, al contrario di molti insegnanti autoproclamatisi deportati.
Medicina offre il 95,5 per cento di sbocchi lavorativi e retribuzioni medie nette per gli specializzati di 1.560 euro. Con chance di lavoro sempre ben oltre il 90 per cento la precede Scienza della Difesa e Sicurezza, offerta solo da tre atenei, e la segue Ingegneria. Tutte a numero chiuso, compresa Ingegneria per molte sedi e per i corsi più applicativi. Le minori opportunità vengono invece dalle facoltà a numero aperto: letterarie, giuridiche e da qualche tempo anche economiche; così che a Milano la Statale e la Bocconi richiedono il test d’ingresso. La conclusione è ovvia: estendere il numero chiuso anziché invocare un diritto allo studio che rischia di produrre disoccupati o lauree che restano nel cassetto, a spese di tutti.