La vita di padre Samir e la parabola del mondo arabo verso il fanatismo
Roma. Questa sera padre Samir Khalil Samir riceverà a Bassano del Grappa il Premio internazionale medaglia d’oro al merito della cultura cattolica. Si tratta di un riconoscimento prestigioso che è già stato assegnato, tra gli altri, a Augusto del Noce, Joseph Ratzinger, Giacomo Biffi, Luigi Giussani, Camillo Ruini, Angelo Scola, Carlo Caffarra. I lettori di questo giornale conoscono Samir: gesuita, islamologo di fama mondiale particolarmente ascoltato da Benedetto XVI, è oggi professore presso il Pontificio istituto orientale di Roma e all’Université Saint Joseph di Beirut. Ha scritto sessanta libri tradotti in diverse lingue e vergato circa cinquecento articoli scientifici.
Col Foglio accetta di parlare un po’ di sé, cosa che non è solito fare, poiché preferisce sempre anteporre i propri studi ai propri dati biografici. Ma è anche vero che quel che studiamo è quel che siamo e la vita stessa di Samir è, a suo modo, paradigmatica di quanto accaduto nel mondo arabo negli ultimi ottant’anni. Nato al Cairo nel 1938, dopo aver frequentato il collegio della città gestito dai gesuiti, nel 1955 entrò nella Compagnia di Gesù e successivamente si trasferì in Francia per completare gli studi di arabistica e islamistica. L’Egitto della sua giovinezza era un paese dove “al cinema i film erano proiettati in inglese coi sottotitoli in francese”. Esisteva una classe borghese che, con la rivoluzione di Nasser, si trasferì negli Stati Uniti, in Australia, in Canada.
Nasser, riconosce Samir, fece anche buone riforme per aiutare le fasce più deboli della popolazione, ma non riuscì ad arginare la progressiva avanzata della Fratellanza musulmana. “Dopo gli studi, negli anni Sessanta tornai in patria e mi accorsi che c’era un gravissimo problema di alfabetizzazione, che persiste tutt’ora. La questione più seria era che i giovani andavano a scuola, ma non facevano niente. Ricordo che i rappresentanti del partito socialista, dopo aver ascoltato le mie preoccupazioni e avendomi fornito una frusta (l’unico strumento educativo che conoscevano), mi mandarono in quello che loro ritenevano l’istituto modello della città: non c’era la preside, gli insegnanti sostavano in cortile a prendere il sole, gli studenti si picchiavano in classe”. Fu così che padre Samir diede vita a una ventina di scuole serali con l’intento di dare un minimo di istruzione a persone che “nemmeno sapevano la loro data di nascita”.
Fu negli anni Settanta che il nostro docente s’accorse che qualcosa stava cambiando: “Le ragazze si presentavano a scuola velate fino ai piedi, persino coi guanti. Gli estremisti pagavano i genitori per ogni figlia che si fosse così agghindata. Questo è un problema che spiega bene la situazione attuale del mondo arabo. Ci sono paesi, come l’Arabia Saudita e il Qatar, che con i soldi prima e la propaganda poi, hanno diffuso e diffondono il fanatismo nelle nostre società. Hanno posto la religione come criterio unico per regolamentare tutto, islamizzando man mano la vita quotidiana. Ma cinquant’anni fa non era così: oggi il problema dell’islam è l’interpretazione ‘letteralista’ del Corano e la mancanza di un’ermeneutica. Perché dire, come fate spesso anche voi occidentali per codardia o ignoranza, che l’islam ‘è una religione di pace’ non è, semplicemente, vero. Nel Corano esistono versetti in contrapposizione fra loro, dipende quali si scelgono. La questione è dunque scegliere, spiegare, contestualizzare ciò che fu detto secoli fa”.
Samir è convinto che la grande maggioranza dei musulmani non approvi il terrorismo, ma è altresì consapevole che si debba con ogni mezzo fermare i predicatori d’odio. “In Egitto certi imam li controlliamo. Non è bello, ma è meglio che ritrovarsi dei giovani indottrinati. Voi in occidente dovreste avere più coraggio e non temere di farvi tacciare di islamofobia. Occorre coraggio per integrare e la concessione della cittadinanza non può diventare solo un trucco per ottenere vantaggi materiali. Chi vuole entrare a far parte di una comunità non deve solo rispettare le leggi, ma anche le usanze di quel contesto”.