Riprendiamo le trasmissioni
Tablet, Netflix, Facebook, servizi on demand e tutto quanto fa informazione e spettacolo. Riuscirà la televisione ad avere un futuro, nell’èra della post verità?
Ci sono le fake news? Ci sono gli alternative facts? Niente di ciò che passa (o nasce) attraverso la Rete è credibile? Siamo nell’èra della post verità? e in tutto questo, la cara, vecchia televisione, il medium per eccellenza che ha determinato gli ultimi cinquant’anni delle nostre vite sociali e collettive, determinato costumi consumi e politica, che fine farà? Sarà un soprammobile nel salotto della popolazione anziana? Un device non strategico per vederci con miglior qualità qualche serie tv, anziché ricorrere all’iPad? O per le partite di calcio? E la credibilità della sua informazione, incalzata dai ritmi e dalla pluralità dei social network, crescerà o diminuirà?
Lunedì 30 gennaio, alle 18,15 al Teatro Franco Parenti di Milano, il Foglio ha organizzato un convegno, “Il futuro della televisione nell’epoca della post verità”, per discuterne con Antonio Campo Dall’Orto, Fedele Confalonieri, Marinella Soldi, Aldo Grasso. E intanto, abbiamo chiesto a un po’ di esperti e addetti ai lavori che cosa pensano del futuro della tv.
“The day the television died” (colpa di Netflix), ma non era andata proprio così
Il 2016 sarà ricordato come “the day the television died”, parafrasando quella canzone là. Ci siamo definitivamente convinti che si può non pagare più il canone, tanto le due-tre cose che ci interessano le recuperiamo online. Ci hanno detto che era tutto su Netflix, e nel momento del bisogno (leggi: la finale di X-Factor) c’è sempre stato un amico pronto a regalarci la sua password di SkyGo: una volta si chiedevano i +1 alle feste, adesso si spera che ai parenti abbonati avanzi un dispositivo da offrirci. L’Italia ha scoperto il Chromecast, la smart tv, le meraviglie di quella che in America era la cable, ma erano anche gli anni ’90. “Oggi si investe sulle piccole reti digitali, il futuro è lì”, si origlia agli aperitivi milanesi. Tv8, coi suoi rigurgiti democratici della fu La7 oggi urbanocairizzata, sfonda il tetto del 2 per cento, mentre l’ex rampantissima Italia1 in certe sere d’inverno arriva a stento al 3. Le generaliste arrancano. Tutto vero, tutto giusto. E però siamo ancora qua ad aspettare Sanremo, specie quest’anno che alla conduzione c’è un governo di unità nazionale. La post verità è colpa di Facebook, che è colpa dei salotti televisivi, che al mercato mio padre comprò: ma quanto ci piace dibattere sulla crisi del talk politico (a proposito: a che anno di crisi siamo arrivati?). Il varietà è morto, ma twittiamo davanti alla prima Heather Parisi che passa. La Rai è agonizzante, ma con Campo Dall’Orto le cose sono cambiate, guarda c’è Pif in prima serata. E’ successo pure con il cinema: l’anno in cui era dato per morto (lo stesso ritornello: è tutto su Netflix) è uscito “La La Land”, e gli americani si sono ricordati quant’è bello sedersi in sala a guardare il tip tap. Figuriamoci noi italiani quando sullo schermo c’è Maria De Filippi.
Mattia Carzaniga, critico di cinema e di televisione
Così la tv “ri-media” ai nuovi media
Bisogna guardarsi dall’effetto “bolla di Facebook”. L’algoritmo di Facebook si riferisce in prevalenza a mondi che sono vicini ai suoi, però ci sono anche altri mondi, altri pubblici, che rendono il mondo più complesso. Questo vale anche per la televisione, e la tv generalista, verso cui convergono segmenti generazionali differenti. Per il pubblico dei 65enni la televisione rimane un medium autorevole, anche in una versione “nuova” come sono i canali alla news. Sarebbe interessante misurare il comportamento del pubblico in occasione dello sciopero dei giornalisti di SkyTg24: probabilmente gli utenti si dirigerebbero sugli altri canali all news, di cui riconoscono il tipo di servizio. Diverso è il discorso per i “giovani adulti”, o i giovani adolescenti, per loro è evidente la perdita di centralità della televisione in quanto “oggetto situato nel centro del salotto”, o quando canale broadcasting dell’informazione. Per questa generazione la televisione resta un device centrale, ma appunto è un device tra gli altri. Per loro non è più “lo schermo”, è il “display”. La televisione è in via d’estinzione, o non più strategica? Bisogna osservare i fatti, e intendersi sulle parole. Per il pubblico più giovane – quello che diventerà maggioritario con crescita di influenza – la tv è “uno dei display” a disposizione, ma resta centrale, anche per le sue dimensioni, la sua qualità di visione. Potremmo dire per il “peso” dell’immagine, inteso anche tecnicamente. Non è un caso che molti degli abbonati a Netflix preferiscano l’abbonamento che consente la visione sul televisore e la visione ad alta definizione. La qualità dell’immagine fa la differenza anche nella percezione di autorevolezza. Per riprendere McLuhan, che parlava di media freddi e media caldi, oggi potremmo dire che esistono media ad alta definizione, come è la tv. e media a bassa definizione, come i canali del web. E a questa è legato un ruolo di autorevolezza, attendibilità. E’ un po’ ciò che accade nei giornali, nonostante la rivoluzione dell’online. Al cartaceo, medium pesante per eccellenza, è riconosciuta una maggiore capacità di approfondimento, maggiore di quella di un forum su internet.
Poi ovviamente c’è un altro aspetto, il fattore tempo. La velocità di comunicazione che è a vantaggio dei nuovi media, dei social. Ma il ruolo centrale nell’universo informativo è dato dall’equilibrio tra due fattori: il “peso” spaziale dell’immagine e la velocità di aggiornamento. Potremmo dire la velocità di “refresh” delle notizie. E in questo la tv offre ancora il mix migliore. Certo, ci sono media più veloci, ma questo non uccide necessariamente la tv. E infatti, la televisione anziché soccombere si modifica, li ingloba per quanto possibile. Potremmo dire: li “ri-media”, ne fa un suo diverso utilizzo. Basti questo esempio: per trovare autorevolezza, la tv fa le rassegne stampa chiamando in causa i giornali cartacei. Per attualizzarsi, per il “refresh”, invece si affida all’aggiornamento dei social. Per questo credo che la tv mantenga ancora un ruolo centrale, pur nella mutazione dei device e dei consumi. Certo, deve lavorare su di sé. Ma faccio un esempio. L’Auditel non è più una garanzia di controllo utile a intercettare i diversi pubblici. Una tv commerciale come Mediaset sta studiando sistemi alternativi e innovativi, ad esempio incrociando i big data e il tagging, seguendo il suo pubblico nelle sue abitudini e nei suoi consumi. (Testo raccolto)
Ruggero Eugeni, docente di Semiotica dei media all’Università Cattolica di Milano
Dal mito di “60 Minutes” alla post verità. Dove finisce lo splendore della realtà?
Ho vissuto per anni nel culto di “60 Minutes”: quello per me era “il” giornalismo televisivo. Quei “corrispondent”, il loro stile essenziale, quelle interviste girate nel più classico dei campo-controcampo, quegli stand up, quella classe consapevole e persino un po’ snob e autoreferenziale, mitologia che ne ha fatto Hollywood compresa. Le 17 interviste a Obama di Steve Kroft dal 2007 a oggi; l’intervista a Fidel Castro di Dan Rather nel 1985; la faccia di Andy Rooney, le interviste di miss Lesley Stahl a Margaret Thatcher, Boris Yeltsin, Yasir Arafat; persino l’ultima intervista a Renzi di Charlie Rose. Ma è presente o passato? E’ davvero giornalismo d’alto lignaggio (data di nascita 1968) o no? La reputation di “60 Minutes” corrisponde a una vera deontologia da portare ad esempio o è semplicemente una bella storia dell’America democratica di una volta e del suo giornalismo autorevole anche perché ricco di mezzi e super pagato? 17 anni di “Tv Talk” su Raitre mi hanno immerso nel fiume impetuoso, creativo ma anche melmoso e conformista della tv italiana: pubblica, commerciale, duopolista e poi plurale come quella di oggi. E tenendo ancora presente il modello Usa, non posso non ricordare come in questi ultimi anni abbiano fatto molto più effetto le interviste a star della politica o dello showbiz nei programmi di “night line”: sorriso sulle labbra, battuta pronta, magari balletto e canzoni accennate a sorpresa dal tale attore o persino dal presidente in carica. Ormai conta essere cool, simpatici, attrattivi: c’è un cambio netto di parametro, da tutti accettato e ormai sdoganato. Ma allora oggi vale tutto, Mentana come Barbara D’Urso, il “Tonight Show” di Jimmy Fallon come i grandi vecchi di “60 Minutes”? Credo di no, ma se girassimo la domanda ai nostri figli saremmo sconcertati dal loro distacco. Noi lo prendiamo per cinismo, disinteresse, fuga dalla complessità, ma dovremmo immedesimarci nel fiume comunicativo caotico e luccicante in cui li abbiamo fatti crescere in questi decenni: non hanno fatto esperienza come noi negli anni di formazione del POCO e DISTINTO, ma vivono immersi nel TANTO e INDISTINTO, in un crescendo di massa e intensità di cui nessuno, trent’anni fa, ha previsto l’esplosione.
Si fa fatica, tutti ormai, vecchi e giovani, ante o post, a distinguere in questo fiume tracimante i FATTI, i semplici fatti. Quelli che verificati con attenzione un tempo spazzavano via i pregiudizi, gli schemi, le opinioni sbagliate. Eppure è l’unica cosa da difendere con le unghie e coi denti, in tempi di post verità, di vibrazione emotiva scambiata per realtà. Fatti e parole sono l’ultima ridotta, la linea del Piave. Per accompagnare e svelare la dittatura dell’immagine, anche di quella che ci facciamo di noi stessi; che è poi il primo ostacolo da rimuovere per porci con vera apertura in mezzo allo splendore della REALTA’.
Massimo Bernardini, giornalista e conduttore di “Tv talk” su Raitre
La credibilità del mezzo dipende dal nostro buon lavoro, tra marketing e storytelling
La televisione continua ad essere centrale, anche se poi viene consumata con altre modalità, e sul web esistono piattaforme che non distribuiscono solo televisione. I numeri dicono il pubblico crede ancora nella televisione, ma sono cambiati i contesti e questo pone qualche problema. Ad esempio il tema dell’autorevolezza. Iniziò “Striscia la notizia” a mettere in discussione l’autorevolezza dei telegiornali, o di certi programmi tv. Questo ha cambiato la percezione del pubblico. Poi sono venuti i reality: tutto vero? Tutto falso? La verità è che anche “il vero” che la tv trasmette è mediato da noi, dai professionisti della televisione. Noi siamo un po’ come nei giochini della Settimana enigmistica: i puntini da unire con la matita per avere il disegno. Se non ci fosse quel lavoro fatto da professionisti, uscirebbe uno scarabocchio. Quindi la credibilità – sia nelle hard news che nell’infoteinment o nelle soft news – passa dalla credibilità del lavoro. Ma oggi a differenza che in passato, anche per il moltiplicarsi delle fonti di informazione, o dei modi di fruizione di eventi e spettacoli, la credibilità non è più “della televisione”, o della Rai, o La7. E’ del brand di un certo canale, del tale conduttore, del prestigio di un certo programma informativo. La gente dice “l’ha detto Mentana”, non più “l’ha detto il telegiornale”. E poi, più in generale, in una tlvisione in cui ha vinto il marketing, che è costruita dal marketing, il problema della credibilità è divenuto un problema di target: devi essere credibile per il tuo target. Anni ci furono polemiche per una trasmissione Rai, “Al posto tuo”, che raccontava storie di vita. Coniarono l’espressione “storie pettinate”. Ma c’è un target di pubblico per cui quel livello di credibilità è sufficiente. C’è un esempio attuale di questo, a proposito di storytelling e fake news. Nella serie tv su O.J. Simpson, ad un certo punto, il suo avvocato difensore in un briefing dice ai collaboratori: “L’importante è che raccontiamo una storia più credibile della loro”. Quello che oggi chiamiamo post verità, o alterbative facts, è per molti versi figlio dello storytelling, di un modo di presentare le cose piegato in un certo modo. Ma proprio questo rende più alta la responsabilità di chi fa televisione, sia come giornalista sia come produttore di contenuti di fiction o infoteinment, a tenere alta l’asticella della credibilità, della correttezza dell’uso delle fonti. (Testo raccolto)
Simona Ercolani, regista, autrice e produttrice televisiva
La tv è viva e le serie sopravviveranno anche al “peak tv”. Ma agli alternative facts?
Convegno alla Statale di Milano, qualche mese fa: in un’aula magna stracolma (incredibilmente) di studenti si parla, tra le altre cose, di serie tv. Una relatrice ingenuamente spoilera il finale della quarta stagione di “Orange Is the New Black”, serie di Netflix, e un brusìo di disapprovazione la censura drasticamente. Poco dopo, un’altra relatrice chiede se qualcuno ha sentito parlare della polemica su “Rocco Schiavone”, serie poliziesca di Raidue il cui antieroico protagonista fuma le canne pur essendo un vicequestore (Giovanardi non ha apprezzato). Silenzio. Almeno qualcuno conosce la serie? Ancora silenzio. La tv sta morendo? Chi pensa che Netflix non sia tv sbaglia: una nota campagna pubblicitaria dell’azienda era intitolata “TV got better”. Netflix vuole essere percepita come tv, e d’altra parte i generi che offre sono tutti televisivi: serie, talk show, comedy specials. La verità è che non abbiamo mai avuto così tanta televisione, e nel caso delle serie al fenomeno è stato anche dato un nome: “peak tv”, il momento in cui il volume di prodotto è cresciuto così tanto che ci si domanda se sia troppo. La tv è in trasformazione, non in crisi. In crisi è il broadcasting, la forma tradizionale di tv: pochi canali, gratuiti e accessibili a tutti ma tramite un unico apparecchio, finanziati dalla pubblicità o dal canone.
La vecchia televisione generalista, dunque, va messa in soffitta? Il problema è che non è stato ancora trovato un valido sostituto: per quanto male se ne sia detto, il broadcasting ha avuto un ruolo fondamentale nella costruzione delle democrazie occidentali, è stato “il collegamento chiave tra la vita pubblica della società e quella privata dei cittadini” (Jostein Gripsrud), il luogo in cui la comunità nazionale veniva creata e mantenuta. Per quanto sia bello il pluralismo, bisognerà fare i conti con il fatto che l’attuale frammentazione dei pubblici, dispersi tra canali tematici, micro-siti di informazione e alluvioni di post, comporta anche una frammentazione della realtà vissuta da ciascuno, ciò che crea le condizioni ideali per il proliferare degli alternative facts.
Gianluigi Rossini, ricercatore all’Università dell’Aquila, è autore di “Le serie TV” (Il Mulino)
In un anno solare ne scorrono due di tv. Che non è più il Centro, ma guardate “X Factor”
La televisione è morta, la televisione ha un futuro? E quale? Siamo talmente bombardati da fatti, notizie, da distrazioni e offerte che oggi il tempo televisivo si è dilatato e disperso. Lento e veloce. Potrei definirla una relatività del tempo televisivo. Se calcolate che in un anno solare ci sono almeno due stagioni tv, capirete che in dieci anni della nostra vita ne sono passati quasi venti di televisione. Ma la televisione non è più il Centro. Molti anni fa la tv riuniva, oggi disperde. C’è ancora una forma di aggregazione per gli eventi sportivi e per alcuni spettacoli, qualche serie, ma eventi. Alla fine la Grande Offerta ha spento il focolare. E’ un fatto negativo? No, è solo un cambiamento. Un bel cambiamento. Anche se provoca vari scompensi vissuti a seconda dell’età di chi guarda, e a seconda della sua formazione “passiva”. Penso che una certa televisione dovrà essere necessariamente sempre più “quotidiana”, con tempi ravvicinati, con una proposta variabile sulla durata della programmazione e sulla durata del prodotto. Anche perché con le forme dello spettacolo non sarà mai possibile l’abbuffata delle nostre amatissime serie che facciamo su oggi Netflix. Questa insaziabilità è evidente ed è già preistorica, se pensiamo che solo qualche anno fa alcuni di noi compravano il cofanetto di quella determinata serie e si sparavano cinque puntate in piena notte. Ma questa è un’altra tv ed è bellissima. Prima guardavamo un lago. Oggi il mare. Bisogna però dimenticarsi la tv dei 20 milioni di telespettatori. Degli ascolti oceanici che seguivano alcuni programmi e conduttori con fedeltà. Anche se oggi, in alcuni casi, è migliorata anche la qualità estetica. C’erano una volta programmi bui, tetri, che invece di svegliarti ti chiudevano gli occhi. Oggfi basta vedere una finale di “X Factor” per cambiare opinione sui colori del mondo. Anni fa non si poteva fare un programma e riprendere un balletto se mancava la steady, oggi senza spy-cam non si può andare in onda. Per molto tempo ci fu il cinema represso, la voglia di 16:9 in un nativo 4:3. Poi finalmente è arrivato, il 16:9. Fino a qualche anno fa entravo a casa e aprivo subito la pagina 533 del televideo. Adesso, apro il computer. (Testo raccolto)
Giovanni Benincasa, autore televisivo
L’autorevolezza della tv è minacciata dalla velocità. Ma la salvano i brand credibili
La televisione non è più “strategica”? O rischia di essere inghiottita dalla velocità di internet e dei social media? Comprese le fake news e dalla post verità? Bisogna premettere che un problema esiste: la velocità esagerata che l’informazione ha raggiunto rende in moltissimi casi troppo difficile la verifica – che è una categoria fondamentale del giornalismo. I grandi giornalisti televisivi americani lo denunciano da tempo, anche se da noi tendiamo a non accorgergercene: l’accorciamento della catena di controllo rende l’informazione più incerta, più sottoposta a errori. Un tempo un servizio veniva “passato”, montato, presentato. Adesso un inviato scende dall’elicottero, si accende la telecamera e va in onda. C’è una rapidità necessaria, e richiesta dal pubblico, imposta da altri media. Ma l’autorevolezza del mezzo in quanto tale tende a risentirne. Dall’altra parte, bisogna sottolineare che l’autorevolezza della televisione, che comunque non è più il medium dominante delle nostre società, si appoggia da tempo su altro: sulla credibilità del conduttore, o di quel giornalista, sul suo essere un “brand”, e sull’affezione che lo lega al suo pubblico. Nessuno è più “affezionato” alla Rai o a Mediaset, o crede a una cosa perché “l’ha detto il Tg1”. Ma crede, o dà fiducia, a questo o quel giornalista, al massimo a questo o a quel format. La forza della televisione è legata a un brand che non è “tutta la televisione”. In secondo luogo, io credo che i media si sommano, non si elidono. E’ successo sempre così. Si credeva che il cinema avrebbe ucciso il teatro, che la televisione avrebbe ucciso la radio. L’online la carta. Invece i media si trasformano, si integrano. Certo, la tv è morta se la intendiamo come l’oggetto che sta in mezzo al salotto, ma cambiano i mezzi di fruizione, lo smartphone o il computer, ma la televisione come piattaforma che diffonde informazione, intrattenimento, immagini, rimane.
Se, da ultimo, dobbiamo parlare della “strategicità” del nostro sistema televisivo generalista, broadcasting, credo basti dire che il simbolo della perdita di senso, e della stessa esistenza, del servizio pubblico è proprio Sanremo. Sanremo con Carlo Conti e Maria De Filippi. Che cosa direbbe il pubblico se Higuain giocasse una partita con il Napoli, e una con la Juventus? O meglio: sarebbe possibile? Esisterebbe ancora il campionato, se Higuain potesse giocare in due squadre? Non è soltanto il segno di una concorrenza che non c’è più, o magari il segnale della fine della concorrenza in altri settori. E’ innanzitutto il segno che la Rai, il servizio pubblico, con tanto di canone, ha perduto la sua identità, la sua capacità di creare , la sua funzione di inventare e mettere sul mercato idee, personaggi. Quando Pippo Baudo passò a Mediaset fu un caso nazionale: era un patrimonio del servizio pubblico, una ricchezza creata dal servizio pubblico che si privatizzava. Oggi che De Filippi vada “in prestito” alla Rai non sconvolge nessuno. Il minimo che si può dire che non c’è alcuna strategicità, per l’Italia, né nell’avere la Rai come servizio pubblico né nel difendere Mediaset, un’azienda che produce poco, “all rights” di suo e punta più che altro alla “licenza di trasmissione” di contenuti di altri. C’è molto da ripensare, da questo punto di vista, sulla strategicità” della televisione. (Testo raccolto)
Giovanni Minoli, giornalista e conduttore televisivo
Una rivoluzione tecnologica mai vista. Stiamo ancora parlando di televisione?
Oggi prevedere il futuro consiste nel registrare con distacco le tendenze già in atto. Ogni tecnologia ha già in sé elementi che portano in una precisa direzione. Si tratta di svilupparne le implicazioni. Per quanto riguarda la televisione, possiamo vedere il futuro da due opposte prospettive. La prima, quella tecnologica. La digitalizzazione dell’informazione ha prodotto una convergenza tra i media che non ha precedenti. Televisione, telefonia, computer si sono fusi in una sintesi a cui è difficile attribuire un nome specifico. Questa sintesi e questa interazione di media si può chiamare ancora televisione? E’ come se a un antropologo fosse stata data la possibilità di prevedere il futuro della scimmia. Il futuro della scimmia è l’uomo. Ma l’uomo è ancora una scimmia? Se vogliamo prevedere il futuro della televisione a partire dalle sue evoluzioni tecnologiche, dobbiamo abituarci all’idea che questo modello di televisione abbia ben poco in comune con la televisione generalista così come noi la conosciamo. La televisione tradizionale si basa sulla passività dello spettatore, che deve accettare i contenuti che gli vengono imposti e deve accettare altresì il palinsesto, cioè le modalità e i tempi in cui questi contenuti possono essere consumati e condivisi. La digitalizzazione ha rovesciato l’unilateralità del rapporto favorendo il consumo su richiesta. Il futuro prossimo della televisione italiana è rappresentato da Netflix. Le tradizionali televisioni, anche a pagamento, ogni giorno, come una mensa aziendale, suggeriscono ai loro utenti la carta del giorno, un menu ristretto da cui attingere. Netflix si presenta come un magazzino sconfinato da cui attingere. Parafrasando una famosa frase di Kant per cui l’Illuminismo rappresenta per l’uomo l’uscita da uno stato di minorità, Netflix rappresenta per lo spettatore il raggiungimento dell’indipendenza nei confronti del medium televisione. L’abolizione del palinsesto è in qualche modo l’abolizione di una tutela: ci sono contenuti leciti sempre e contenuti fruibili solo in fascia protetta. E di un orologio sociale. Ma, paradossalmente, la fine della televisione pedagogica non ha per conseguenza uno scadimento. Al contrario l’esigenza di raggiungere il pubblico più vasto imponeva alle produzioni di fiction della televisione-servizio pubblico, un linguaggio elementare unito a contenuti ritenuti edificanti. La tv on demand è la fine di biografie su santi, carabinieri, eroi nazionali.
Carlo Freccero, saggista e dirigente televisivo