“Una decisione sorprendente e fuorviante”, ha titolato senza sfumature leonardesche il Washington Post a proposito della scelta di quattro grandi musei di rimandare a tempi migliori, espressione ipocrita per dire mai, la mostra dell’artista americano Philip Guston, noto tra l’altro per l’impegno nelle lotte antirazziste degli anni Sessanta, di cui il Foglio ha scritto martedì. L’editoriale è firmato da Sebastian Smee, critico d’arte del quotidiano e vincitore di Pulitzer: “L’idea che opere con un potente messaggio di giustizia sociale e razziale debbano aspettare per essere mostrate finché, in un qualche futuro, loro (cioè i direttori dei musei, ndr) riterranno che l’attuale tumulto e confusione saranno magicamente scomparsi è veramente orwelliana”. Tra le opere di Guston ce ne sono alcune che rappresentano, in modo cartoonistico, figure che indossano il cappuccio del Ku Klux Klan. I quattro musei che hanno deciso di autocensurarsi, e soprattutto chiudere gli occhi al pubblico e privarlo della libertà di giudizio (National Gallery, Tate Modern, Museum of Fine Arts di Boston e Museum of Fine Arts di Houston) non lo dicono, ma a scatenare il loro ipercorrettismo razziale sono soprattutto quelle. L’idea di “voler proteggere il pubblico dal dover interpretare da se stessi le opere di Guston” è, secondo Smee, semplicemente ridicola. Anzi orwelliana. Pensare che l’arte sia pronta per essere mostrata solo se si è sicuri che possa essere “ben interpretata”, dice, è la negazione della funzione stessa dell’arte. Della sua libertà. E’ importante che da un giornale liberal così autorevole giunga un altolà contro quella che è ormai, con ogni evidenza, una pericolosa “chiusura della mente americana”, per citare il celebre saggio di Allan Bloom. In Italia, dove questa chiusura ha finora fatto meno danni, tendiamo a considerare “libertà dell’arte” riuscite provocazioni come quella di Francesco Vezzoli con la Madonna-Ferragni, che creano in realtà falsi scandali e si adattano perfettamente allo scorrere del mainstream. Eppure sarebbe bello che qualche museo italiano dicesse: Philip Guston ve lo mostriamo noi.
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