l'anniversario
Eugenio Montale, 125 anni dopo
Il 12 ottobre del 1896 nasceva il poeta e premio Nobel per la Letteratura. Oggi lo ricorda Google e anche il Foglio, con quattro articoli dal suo archivio
Il poeta “senza errori”, gran sarto depresso del nostro Novecento. Eugenio Montale è stato questo e molto altro, come ha raccontato il Foglio in diversi articoli che qui riproponiamo. Era nato il 12 ottobre di 125 anni fa, nel 1986. Per questo oggi Google gli dedica un suo doodle.
Eugenio Montale, ha scritto Matteo Marchesini, lascia intravedere orizzonti sublimi proprio mentre scarica la loro sontuosità su amuleti negletti, o mentre fa coincidere la preziosa incastonatura lessicale con un termine tecnico, così da allontanare l’accusa di estetismo. Parte della sua fortuna dipende anche da questa abilità nel concedere a sé e al lettore un’aura di nobiltà mitica senza pagarla, ossia nel velare e insieme nell’esaltare quel fondo d’indicibile patetismo, di romanzetto e kitsch su cui anche la più armata poesia moderna conta per spiccare i suoi balzi.
Negli ultimi anni suoi, il vecchio Montale, rimuginando sull’aldilà, dopo una vita spesa a corteggiare l’inestricabile ragnatela dell’ignoto, con l’ansia di trovare un varco per sbirciare in anticipo verso l’ineffabile, viveva, sia pur onusto di onori, in una sorta di cupa revanche che s’espresse in un catastrofismo siderale. Ne ha parlato Giuseppe Marcenaro in un lungo articolo sul Foglio del weekend. Secondo Marcenaro, Montale, convinto che con lui si fosse compiuta una parabola creativa, si indusse, sul crinale estremo dell’esistenza, a ironizzare addirittura sulla propria vocazione poetica. Il “genere poesia” era ormai inutile? Un luogo di ricerca dell’assurdo. E che l’opera sua non aprisse nuove strade, ma chiudesse un ciclo. Lui, l’ultimo poeta dell’umanità. Che poi sarebbe l’orgoglio di un letterato, capace di portare la sua poesia all’apogeo, con l’inconfessata ambizione di non lasciare epigoni ed eredi. Con lui si chiudeva l’epoca. Il suo tempo un’era geologica. E fu forse questa ragione che lo portò all’osservazione maniacale di un quotidiano sfatto e rumentoso tale al nostro, gloriosamente “cantato” nel suo Satura. Un quotidiano da cronaca minore pur nell’esagerazione del tutto. Una “saturazione” di dentifrici, calzascarpe, spazzini in sciopero e radio gracidanti nel silenzio delle agostane deserte città. E avendo una più che giustificata e alta considerazione di se stesso, si consentì la demolizione dei miti poetici che aveva edificato.
Il poeta e premio Nobel, ha notato poi Roberto Copello su queste colonne, non è stato affascinato dalla luna quanto lo è stato invece dal sole. Nel suo corpus poetico l’astro lunare ricorre solo una decina di volte, per lo più di straforo. Importante tuttavia è una sua poesia minore, Fine del ‘68, scritta pochi mesi prima dell’allunaggio del Lem: Montale vi immagina di contemplare “dalla luna, o quasi, / il modesto pianeta che contiene / filosofia, teologia, politica, / pornografia, letteratura, scienze palesi o arcane. / Dentro c’è anche l’uomo, / ed io tra questi. E tutto è molto strano”. La citazione interessa soprattutto in quanto vale a introdurre il discorso sull’ottica rovesciata, su quello “sguardo dal di fuori” che tanto intimoriva Heidegger, come metafora dello sradicamento e dello strapotere tecnologico.
Nei giorni della pandemia, sul finire del primo lockdown, lo scorso giugno, Adriano Sofri ha invece riflettuto sul significato morale dei celebri versi di Montale: “Codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”. Quei due versi del 1923 sono serviti per allontanarsi da un bagaglio di convinzioni che avevano la pretesa di squadrare la realtà. Perché non rivalutarli anche per cambiare prospettiva oggi, che siamo ancora alle prese con la pandemia?
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