Acquirenti di ultima istanza
S’ode in tono minore il ritornello “un altro pezzo d’Italia se ne va” sull’indiscrezione del passaggio della quota di controllo di Pirelli a China Chemical. La compagnia di stato cinese è in predicato di lanciare un’Offerta pubblica di acquisto da 7 miliardi di euro sulla multinazionale degli pneumatici guidata da Marco Tronchetti. Pochi issano l’anacronistico vessillo dell’italianità davanti alla cessione del sesto gruppo industriale italiano che significa sia mercato russo della gomma – i cinesi subentrerebbero al posto di Rosneft, gestita dall’oligarca putiniano Igor Sechin – sia un posto in Mediobanca, ovvero quel cordone finanziario transatlantico dell’epoca di Cuccia ora declassato a salotto povero.
Opporre l’inflazionato alibi della strategicità è un lusso che l’Italia non può permettersi. Il tabù del “pericolo giallo” è stato polverizzato dalla crisi, largo al “buyer of last resort” dunque. D’altronde l’esempio lo dà lo stato. Le agenzie finanziarie di Xi Jinping hanno quote marginali di Eni (idrocarburi), Enel, Terna, Snam (elettricità e gas) e Ansaldo Energia (turbine) o siglano joint venture significative, vedi Saipem-PetroChina. Hanno poi scommesso qualche fiches sulle private Generali, Telecom, Prysmian, Fiat. Pechino penetra così la finanza italiana e tutte le sue ramificazioni con investimenti relativamente modesti rispetto agli altri paesi europei, ma in rapida crescita in termini assoluti, e mette un piede sul ponte mediterraneo tra un’area stabile ma in impasse, qual è l’Eurozona, e un’altra instabile ma di estremo interesse, qual è il nord Africa. Il Dragone presta soccorso e cavalca la destabilizzazione.