La riforma Fornero non va al cimitero
Nel suo programma elettorale per le primarie del centrosinistra del 2012, quelle combattute e perse contro Pier Luigi Bersani, Matteo Renzi dedicava poche parole alle pensioni: “La riforma previdenziale introdotta da Elsa Fornero non verrà messa in discussione. Era necessario ripristinare la sostenibilità finanziaria (soprattutto per le nuove generazioni) del sistema pensionistico, a fronte dell’aumento consistente dell’età anagrafica del nostro paese. Il problema dei cd. ‘esodati’ dovrà tuttavia trovare una immediata soluzione”. Ora che deve rivolgersi alla totalità dell’elettorato italiano, e non solo alla meglio gioventù della Leopolda, l’attuale premier non usa più i toni rigoristi e perentori del 2012. Ogni tanto, per coprirsi a sinistra e non inimicarsi milioni di italiani costretti dalla Fornero a restare al lavoro più di quanto sperassero, Renzi lascia che il ministro Giuliano Poletti evochi cambiamenti e ammorbidimenti della riforma montiana. Tuttavia al presidente del Consiglio non sfugge quanto la riforma che più di tutte segnò il passaggio (temporaneo) dalla democrazia della Coca-light a quella depoliticizzata sia ancora così preziosa. Smantellarla come vorrebbero i Salvini, i Grillo e le Camusso riporterebbe l’Italia in una condizione di instabilità finanziaria e di inaffidabilità internazionale che ammazzerebbe sul nascere le speranze di ripresa economica.
In un’intervista rilasciata ieri a Repubblica, il presidente dell’Inps (di nomina super renziana) Tito Boeri ha annunciato che l’Istituto di previdenza presenterà a breve una proposta organica di revisione del sistema pensionistico “lungo l’asse assistenza-previdenza”. Per Boeri, la vera emergenza del welfare italiano è oggi quella dei 55-65enni che, una volta perso il lavoro, non lo ritrovano quasi mai e cadono nella trappola della povertà. Che a loro vada riconosciuto un sostegno al reddito è cosa buona e giusta. Né sarebbe sbagliato “liberalizzare” per quanto possibile l’uscita dal lavoro, a condizione che il lavoratore si paghi di tasca sua il pensionamento anticipato, con un ridimensionamento dell’assegno mensile che non gravi sulla fiscalità generale o sul debito previdenziale futuro (cioè sui contribuenti più giovani). Se di questo si parla quando si ragiona di modifiche alle attuali regole per la pensione pubblica, difficilmente si può essere contrari. La legge Fornero non va difesa nei suoi dettagli, modificabili e perfettibili, ma nei suoi princìpi fondamentali. Cioè, la sostenibilità nel medio-lungo periodo e – soprattutto – il messaggio rivoluzionario che ha trasmesso agli italiani: non possono esistere pensioni gratis, la baldoria delle baby-pensioni et similia è terminata per sempre, la previdenza a buon mercato non può più ovviare ai problemi di un welfare malandato e inefficiente. In quell’autunno drammatico del 2011, con il paese a un passo dalla bancarotta, tutti avemmo paura e accettammo di buon grado l’innalzamento brusco dell’età pensionabile. Meglio lavorare che fallire, meglio essere formiche che cicale. Passata la bufera, la memoria sembra sbiadita, ma i rischi sono sempre in agguato. Per questo, la legge Fornero non deve andare al cimitero.