S'apre un inatteso spiraglio in Parlamento sugli Ogm
La senatrice a vita Elena Cattaneo ha unito attorno a sé un drappello di senatori di centro destra e centro sinistra nel tentativo di riaprire il dibattito in Italia sugli Organismi geneticamente modificati (Ogm). E questa volta pare esserci finalmente riuscita. Dopo la presentazione di un semplice Ordine del giorno, infatti, il sottosegretario Sandro Gozi, a nome del Governo, ha detto che “entro l’estate” l’esecutivo si impegna a “trattare e risolvere il tema della ricerca pubblica in campo aperto, garantendo la massima sicurezza delle nostre coltivazioni tipiche”.
Finora ne hanno parlato soltanto alcuni siti web specializzati, ma il segnale non è di poco conto, considerata la totale chiusura registrata finora dai policy maker sul tema. La scienzata (e senatrice) Cattaneo, per questo motivo, ha provato a raggiungere un obiettivo minimo: riaprire quantomeno la discussione sul tema della libertà di ricerca, “della libertà di ricerca su Ogm in pieno campo, quella che fanno i tanti Paesi europei che non hanno mai impedito tale attività – ha detto in Senato (vedi l’intervento integrale qui sotto – Da noi, invece, i progetti dei nostri ricercatori universitari o degli istituti di ricerca controllati dal Ministero dell’agricoltura sono chiusi da quindici anni nei cassetti. Dunque, noi paghiamo scienziati per scoprire, inventare, insegnare e applicare cose di utilità nazionale che, allo stesso tempo, impediamo loro di realizzare”. Il Governo si è impegnato a rispondere. Decisamente una vicenda da seguire.
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Qui di seguito l’intervento della Senatrice a vita, Elena Cattaneo.
Gentile Presidente, cari colleghi,
ho chiesto di intervenire in questa discussione per approfondire con voi un aspetto del disegno di legge connesso alla direttiva europea n. 412 del 2015, che lascia liberi gli Stati di scegliere in autonomia se coltivare o meno OGM, ma io voglio trattare un tema che è rappresentato in uno specifico ordine del giorno, tangente ma autonomo rispetto alla coltivazione, ovvero la raccomandazione richiamata nei considerata della stessa direttiva di promuovere la ricerca scientifica sugli OGM nella sua completezza. Mi rendo conto che discutere di OGM è difficilissimo: al solo pronunciarne il nome, scattano riflessi condizionati di rifiuto, che li associano alle multinazionali, alle grandi monoculture, a rischi ignoti per la salute e per l’ambiente, al timore della contaminazione delle coltivazioni tradizionali. Mi chiedo se possiamo provare a non farlo per i prossimi 15 minuti, perché vorrei ragionare con voi di ricerca pubblica in pieno campo sugli OGM, cioè quella ricerca pubblica che si fa in tanti Paesi europei, anche quelli che sono contro la coltivazione commerciale degli OGM.
Vorrei parlare con voi di ricerca pubblica basata sulle biotecnologie per tutelare le nostre tipicità, per proteggere le nostre piante nei campi in cui sono coltivate, per ridurre l’impiego di dannosi pesticidi, per sviluppare le biotecnologie su semi non brevettati e complessivamente consentire all’agricoltura italiana di rimanere o diventare più competitiva. Questo è il mio specifico intento con voi oggi.
Gli OGM sono piante geneticamente modificate, come tutte quelle che l’uomo ha addomesticato dall’invenzione dell’agricoltura in poi, si tratta di una tecnologia che non è più nuova, lo sappiamo tutti. Fino ad ora questa tecnologia spostava un gene d’interesse da una specie – ad esempio da un batterio resistente o un parassita – ad un’altra specie – ad esempio il mais – per conferire in tanti tipi diversi di mais resistenza a quei dannosi parassiti e quindi ridurre notevolmente l’impiego di pesticidi. Oggi le biotecnologie fanno molto di più e, direi, molto meglio e non possiamo stare a guardare: spostano geni di interesse tra piante della stessa specie (un gene di un melo resistente spostato in un altro melo) oppure spengono un gene in un’altra pianta allo scopo di migliorarla, quindi non introducono niente di nuovo dall’esterno.
Ho passato dei mesi a studiare questi aspetti, a studiare come i ricercatori agrari in altri Paesi fanno ricerca su queste piante, usando le biotecnologie, con quali obiettivi. I loro Governi sostengono la loro sperimentazione in campo aperto. Ho studiato le tecniche per produrli, le procedure di protezione dei campi sperimentali, affinché niente esca e niente entri, i dati sulla sicurezza, il loro uso nell’alimentazione, l’impatto ambientale, eccetera. Studiando questi temi ho dovuto anche affrontare le contraddizioni del nostro Paese e confesso di essermi appassionata all’argomento, senza avere alcun diretto interesse. Mi interessa, infatti, capire come si affronta, in una società laica, un tema percepito come controverso e pieno di contraddizioni, che tocca le nostre emozioni più profonde, le nostre sensibilità più estreme, come la dipendenza dal cibo e dal buon cibo, la tradizione italiana e la nostra idea del “naturale quindi buono”; un tema davvero culturalmente affascinante nel quale dobbiamo inserire i fatti. Come vi ho anticipato, l’ordine del giorno che ho presentato non riguarda la coltivazione commerciale, ma quello che si può studiare a monte di tutto ciò. La stessa direttiva, nel lasciare liberi gli Stati, raccomanda l’investimento in ricerca. L’ordine del giorno mira a dare la possibilità ai nostri ricercatori di studiare le nostre piante, mira a lasciare liberi i nostri ricercatori pubblici, insieme agli agricoltori, di capire come evitare che le nostre piante, quelle che ci interessano e che abbiamo nei nostri campi, siano devastate, alle nostre latitudini, da tanti parassiti. Sto parlando – vorrei chiarirlo ancora una volta – non della generazione di presunte piante omologate e standardizzate, prodotte con semi di multinazionali, ma, al contrario, di come le biotecnologie, soprattutto le nuove biotecnologie, non OGM (cioè quelle che non spostano geni da una specie all’altra, ma che usano geni della stessa specie) possano aiutare a tutelare la tipicità dei prodotti e delle piante italiani, che altrimenti – lo sapete bene – sarebbero presto persi (molti sono già persi).
Sto anche parlando – e mi permetto di parlare pure di questo – del tema della libertà di ricerca; della libertà di ricerca su OGM in pieno campo, quella che fanno i tanti Paesi europei che non hanno mai impedito tale attività. Da noi, invece, i progetti dei nostri ricercatori universitari o degli istituti di ricerca controllati dal Ministero dell’agricoltura sono chiusi da quindici anni nei cassetti.
Dunque, noi paghiamo scienziati per scoprire, inventare, insegnare e applicare cose di utilità nazionale che, allo stesso tempo, impediamo loro di realizzare.
Mi rendo conto che questo blocco alla ricerca pubblica è frutto dell’avversione cresciuta negli anni verso le coltivazioni commerciali degli OGM e verso le multinazionali che producono i semi OGM. Ma, attenzione onorevoli senatori, sono le stesse multinazionali da cui ormai siamo dipendenti per i semi non OGM.
Mi rendo anche conto che l’avversione è verso l’idea di questa omologazione, verso il controllo totale sulla produzione di beni vitali, ma la coltivazione commerciale e la ricerca pubblica sulle piante sono due cose diverse. Si può bloccare la prima pagando un caro prezzo economico – e non mi cimento su questo – ma non ci si può vietare di studiare qualcosa nella misura in cui le procedure sono sicure (e lo sono). Vietare la ricerca, colleghi, è come censurare la libertà d’espressione: si lede
un diritto fondamentale.
Vorrei essere chiara ancora una volta su un concetto: impedire le sperimentazioni in pieno campo su OGM significa impedire la ricerca pubblica, perché l’unica ricerca vera su OGM è quella che sperimenta le migliorie genetiche nelle condizioni di campo che attaccano quella pianta. L’Italia ha fatto ciò per 13 anni, ha impedito la conoscenza vietando la sperimentazione in campo aperto, mentre nel resto dell’Europa sono state condotte migliaia di sperimentazioni di OGM in pieno campo, anche in Paesi come la Germania e la Francia che osteggiano la coltivazione commerciale.
Guardate che la posizione del nostro Paese diventa ancora più singolare e addirittura contraddittoria quando si scopre che mentre si vieta la ricerca biotecnologica pubblica sulle piante in generale, gli OGM per così dire classici e ormai di vecchia generazione li importiamo e li mangiamo. Questa è la prima contraddizione dalla quale trae spunto l’ordine del giorno sulla ricerca pubblica: li vietiamo, ma li importiamo; li mangiamo in modo massiccio da 20 anni, ma non li studiamo. Tra l’altro, se li mangiamo, la prima cosa che mi viene in mente è che quindi non è vero che sono pericolosi per la salute. Inoltre, non è vero che possiamo farne a meno, non si può mentire. Al Paese bisogna dire che non li vogliamo coltivare, ma li acquistiamo a tonnellate, nutriamo gli allevamenti, poi finiscono nel nostro piatto, nelle forme di Parmigiano reggiano o nel prosciutto San Daniele.
Questa contraddizione viaggia insieme a un altro paradosso che mi interessa per l’ordine del giorno.
Abbiamo il terrore del monopolio delle multinazionali (sempre quelle a cui diamo il monopolio anche dei semi non OGM, non nascondiamolo mai questo), ma allo stesso tempo a tali multinazionali lasciamo campo libero non investendo in ricerca, cioè non facciamo proprio niente per limitare il loro monopolio. Non muoviamo un passo nella ricerca di forme di tutela e di rafforzamento dei nostri semi e delle nostre tipicità; non abbiamo quasi neanche più un’industria sementiera nel nostro Paese. Vietiamo cose che importiamo; mangiamo ciò che non studiamo; ci consegniamo alle multinazionali non producendo innovazione.
Vengo ora alla seconda contraddizione che è ancora più rilevante per l’ordine del giorno. Le nostre piante sono invase da parassiti e noi stiamo perdendo delle tipicità agricole di cui andiamo fieri nel mondo perché non vogliamo studiare, sperimentare e usare le bio-tecnologie OGM e non OGM. Tutti o quasi tutti i semi che piantiamo in Italia sono progettati all’estero, anche le piante da orto.
Scusate se mi ripeto, ma questo ordine del giorno non chiede di sostenere la coltivazione commerciale; lasciamola agli altri, alla Spagna, da cui poi acquisteremo. Lo scopo non è sdoganare OGM prodotti dalle multinazionali, non è avere mele omologate; l’obiettivo è l’opposto, cioè sollecitare con voi una riflessione pubblica sulle contraddizioni della nostra politica in materia, per capire se la ricerca pubblica che impiega le bio-tecnologie agrarie può esserci utile, almeno per proteggere e mantenere le nostre piante tipiche, perché ne stiamo perdendo troppe.
Esistono progetti da anni chiusi nei cassetti (dovreste leggerli), ve ne racconto uno. Si tratta di un OGM pubblico, tutto italiano, persino ecosostenibile. L’Italia, come sappiamo bene, esporta mele in tutta Europa: sono dei prodotti tipici, dalle splendide mele dei nostri colleghi trentini, a quelle della Valle d’Aosta, alle mele annurche campane. Tra l’altro, nel nostro Paese queste piantagioni hanno anche una rilevanza ambientale e culturale notevole: alcune piantagioni arrivano dal Medioevo.
Tuttavia il clima è cambiato e in tutto il mondo – lo ripeto, in tutto il mondo – i meli sono attaccati da un flagello, un fungo responsabile della più grave e diffusa malattia delle mele: la ticchiolatura, che danneggia la pianta e produce delle macchie sul frutto rendendolo non più commerciale. Lo scorso anno in una Regione d’Italia sono stati effettuati più di 30 trattamenti di pesticidi per difendere le mele dai parassiti. Anche le mele biologiche sono trattate con le sostanze chimiche consentite per questo tipo di coltivazioni: i sali di rame. È un metallo pesante, tossico, che resta nel terreno per decenni. Non sarebbe bello avere delle mele che resistono alla malattia, cosicché si ridurrebbe drasticamente il numero di trattamenti con agrofarmaci? Ecco la storia del professor Silviero Sansavini dell’università di Bologna, un distinto signore, ora professore emerito, che ha più di 70 anni. Insieme al professor Tartarini scopre che una mela selvatica è immune dalla ticchiolatura perché porta un gene, che si chiama VF, che la protegge e le dà questa protezione in dono dalla natura. È una selezione naturale. I ricercatori cercano di incrociare questa mela selvatica con le mele che noi siamo abituati a mangiare, ma non ci riescono perché, durante questo incrocio, non passa solo il gene di interesse ma anche migliaia o centinaia di altri geni che tolgono il valore organolettico a quella mela. Sansavini e Tartarini, in un laboratorio universitario prendono una mela della varietà Gala, una delle favorite dagli italiani, ma che deve essere spruzzata con decine trattamenti, e impiantano in quella mela Gala quel gene, quello che la rende immune dal parassita. Erano gli anni 1992 e 1993, e l’Italia era all’avanguardia nel mondo nel campo delle biotecnologie agrarie. I nostri genetisti agrari tenevano ancora alta nel mondo la bandiera di Nazzareno Strampelli, universalmente riconosciuto come il fondatore del miglioramento delle piante su basi scientifiche.
Ma torniamo alle mele. Dopo pochi anni, le prime prove sulla mela Gala, fatte su meli coltivati in serra, danno i risultati sperati e, nel 2002, il nostro Paese è il primo al mondo ad arrivare a un risultato che era desiderato da tutti. A Bologna quei meli geneticamente modificati, che ridurrebbero l’impatto ambientale, se coltivati, stanno in un cassetto. Dobbiamo aver paura di questa mela? Viene chiamata cisgenica, perché si sposta un gene da una pianta a un’altra pianta della stessa specie. Non è progettata per essere venduta insieme a un pesticida. Anzi, ne riduce fortemente la necessità e la pianta non deve essere riacquistata tutti gli anni dall’agricoltore.
Il professore Sansavini avrebbe potuto brevettare la tecnologia di trasferimento del genere, ma non ha voluto perché ha pensato che non fosse giusto e l’ha resa di dominio pubblico. Chiunque nel mondo può utilizzare quel metodo per produrre mele resistenti alla malattia. Una bellissima storia, che però finisce qui, con la soddisfazione di un professore di essere stato il primo al mondo a realizzare un risultato cui tutti ambivano, ma anche con la lacerazione professionale di non avere
mai visto la sua scoperta in campo perché il Ministero dell’agricoltura, dal 2002 vieta la sperimentazione in campo aperto.
In Olanda e in Svizzera, invece, hanno sviluppato l’uso del gene scoperto da Sansavini, hanno avuto l’autorizzazione alla coltivazione in esterno, con tutte le norme di sicurezza, e ora hanno campi di meli resistenti alla malattia. Sono tanti gli esempi di questo tipo.
Il professor Eddo Rugini, dell’Università della Tuscia, ha assistito impotente, il 12 giugno 2012, al rogo di 30 anni di conoscenza: alla distruzione delle sue piante di kiwi, di ciliegio, ma anche di ulivi geneticamente modificate per resistere ad alcuni parassiti o per tollerare meglio la siccità. Decenni di ricerca distrutti dalla mancanza di rinnovo dì un’autorizzazione.
Vorrei citare anche Francesco Sala, scomparso nel 2011, grande genetista della mia università, la Statale di Milano. Non potendo sperimentare in campo i suoi meli valdostani resistenti al parassita melolontha, una larva che mangia le radici, e il suo riso Carnaroli, oramai rarissimo per l’attacco di un fungo, si dedicò allo sviluppo di pioppi resistenti agli insetti che riuscì finalmente a vedere coltivati. Ma non in Italia: in Cina, dove ve ne sono centinaia di migliaia di ettari.
E possiamo anche citare il pomodoro San Marzano, che ormai non esiste più. Era una tipicità di cui la Campania era il maggior produttore in Italia. Ma la pianta è attaccata da virus con sigle orribili: CMV, TSWV, CAMV. Non esistono preparati antivirali. Negli anni 2000 alcuni ricercatori stavano lavorando su geni capaci di dare resistenza a questo attacco virale. Il progetto è nel cassetto, e del nostro pomodoro tipico San Marzano non vi è ormai più alcuna traccia.
Tra gli anni Novanta e il 2000, noi eravamo all’avanguardia nel settore delle biotecnologie in agricoltura sui nostri prodotti tipici, per proteggerli: mele, ulivi, ciliegi, pomodori, kiwi, peperoni, riso, vite, melanzana e tanto altro. Prodotti nostri, della nostra agricoltura, che non interessano alcuna multinazionale. Si aspettava solo l’emanazione di un regolamento dei Ministeri competenti per poter effettuare, in tutta sicurezza, le sperimentazioni in campo.
Esattamente come un farmaco salvavita deve essere sperimentato sull’uomo per poterne verificare sicurezza ed efficacia. Ma dal 2000 la politica italiana decide di bloccare tutto. Il Regolamento non fu mai emanato. Sapete qual è stato, secondo me, l’errore principale? Il fatto di non rendersi conto che i nostri ricercatori nei nostri centri di ricerca pubblici stavano lavorando su esigenze nostre, tutte italiane.
Un senatore mi ha chiesto – e lo ringrazio, perché la domanda è giusta e pertinente – come si affronta il timore della contaminazione, conseguente alla sperimentazione in campo aperto con OGM. La domanda sorge spontanea, se non si è specializzati sull’argomento o se non lo si è studiato, ma ciascuno di noi studia argomenti diversi. Questo timore lo si annulla, come hanno fatto gli altri 19 Paesi europei che sperimentano in campo aperto, applicando i protocolli rigorosi che riducono a zero il rischio di contaminazione. Questi protocolli contemplano soluzioni tecniche che gli specialisti conoscono bene e sono applicati nei Paesi che confinano con noi e fanno ricerca in campo aperto. Si tratta anche di questioni tecniche, con problematiche e soluzioni gestite in maniera assolutamente diversa rispetto alla coltivazione commerciale, anche a livello di legislazione europea.
Il raccolto di un campo sperimentale – teniamolo bene a mente – che sia OGM o sperimentale di altro tipo, non può mai entrare nella filiera commerciale o alimentare, ma resta a disposizione solamente per le analisi scientifiche dei laboratori di ricerca che compiono quella sperimentazione. Le due filiere sono strutturalmente separate per regola ed è scontato che tale separazione vada ribadita e sottolineata nelle normali procedure di autorizzazione.
Sapete, colleghi, non sarebbe la prima volta che sperimenteremmo piante OGM in campo aperto in Italia. Tra il 1992 e il 2004 abbiamo coltivato in campo aperto quasi 300 tipologie di piante OGM diverse, senza leggi speciali e senza inventarsi nulla di particolare, ma semplicemente osservando le norme e i protocolli definiti pianta per pianta. Abbiamo messo in campo decine di piante OGM di pomodoro, melanzana, cicoria, vite, fragola, grano, mais o insalata, senza che ci fosse il minimo problema. Nella seconda metà degli anni Novanta in Italia si coltivarono anche decine di migliaia di campi di mais OGM, senza che ne sia rimasta traccia a livello sanitario e ambientale.
Chiudo, gentili colleghi, sottolineando che forse oggi abbiamo l’opportunità di richiamare l’attenzione del Governo verso una questione che, a mio avviso, deve essere per coerenza risolta. Vi ripeto che non c’è ricerca sugli OGM, se non è in pieno campo. La scienza, vedete, ha una qualità formidabile che io non mi trattengo mai dal raccontare ai giovani. Non conosce le espressioni come: «È troppo tardi», «Abbiamo perso il treno» o «Cosa potremo mai fare noi con poche risorse di fronte ai giganti dei mondo». Nella scienza vincono solo l’intelligenza, le idee, l’ingegno, non la forza. E basterebbe davvero poco, basterebbe cioè raccogliere la raccomandazione dell’Unione europea a sostenere la ricerca pubblica in campo pieno su OGM e non OGM per ridare speranza ad un settore dell’economia italiana che è strategico rispetto al futuro. Se questo accadesse sarebbe anche un segnale della volontà del nostro Paese di riaccendere la fiammella della conoscenza su que sto argomento.
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Di seguito il testo dell’Ordine del giorno G1.100 presentato dai senatori Cattaneo, Zanda, Romani, Schifani, De Biasi, Formigoni e Bianconi
Il Senato,
premesso che:
il disegno di legge in discussione AS 1758 recante «Delega al Governo per il recepimento delle direttive europee e l’attuazione di altri atti dell’Unione europea; Legge di delegazione europea 2014» dispone al primo comma dell’articolo uno che «il Governo è delegato ad adottare secondo le procedure, i princìpi e i criteri direttivi di cui agli articoli 31 e 32 della legge 24 dicembre 2012, n. 234, i decreti legislativi per l’attuazione delle direttive elencate negli allegati A e B alla presente
legge»;
all’allegato B della presente legge il penultimo punto, il numero 54, aggiunto al testo d’iniziativa del Governo dalla 14ª Commissione permanente in sede referente, si individua la seguente direttiva tra quelle oggetto di recepimento: «54) (UE) 2015/412 del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’11 marzo 2015, che modifica la direttiva 2001/18/CE per quanto concerne la possibilità per gli Stati membri di limitare o vietare la coltivazione di organismi geneticamente modificati (OGM) sul loro territorio (senza termine di recepimento)»;
– in Italia, da oltre dieci anni, in controtendenza con le tradizioni d’eccellenza scientifica di settore del Paese e al contrario di quanto avviene nei maggiori Paesi europei, non è possibile fare ricerca scientifica pubblica sperimentando in pieno campo le innovazioni biotecnologiche scoperte dagli scienziati italiani;
– il divieto è in contrasto con l’interesse nazionale e con le indicazioni dell’Unione Europea contenute nella stessa direttiva (UE) 2015/412 di cui si dispone il recepimento che, nel lasciare liberi gli Stati di regolamentare a piacere sul loro territorio le piante geneticamente modificate, raccomanda di favorire la ricerca scientifica nell’interesse dell’economia agricola europea e mondiale;
– inoltre, la direttiva dispone che l’Autorità e gli Stati membri dovrebbero perseguire la formazione di una vasta rete di organizzazioni scientifiche in rappresentanza di tutte le discipline, comprese quelle relative alle tematiche ecologiche;
– la direttiva raccomanda che la Commissione e gli Stati membri garantiscano la messa a disposizione delle risorse necessarie per la ricerca indipendente sui rischi potenziali che possono insorgere a seguito dell’emissione deliberata o dell’immissione in commercio di OGM e a fare in modo che i ricercatori indipendenti abbiano accesso a tutta la documentazione pertinente, nel rispetto dei diritti di proprietà intellettuale;
– nuovi finanziamenti specifici devono essere assegnati per rendere possibili le valutazioni d’impatto ambientale delle innovazioni che vengono sperimentate in campo;
– le sperimentazioni e le valutazioni d’impatto ambientate devono essere condotte in maniera comparata tra le diverse tipologie di coltivazioni. Questo vuol dire che una pianta modificata va valutata rispetto alla stessa pianta coltivata in maniera tradizionale, o secondo le procedure dell’agricoltura biologica. Quindi la valutazione d’impatto non è assoluta, ma relativa al carico ambientale prodotto dai tre tipi dì coltivazioni;
– l’Italia ha accumulato uno spaventoso ritardo nelle discipline dell’innovazione agronomiche che si traducono anche nell’assenza di aziende sementiere italiane anche di medie dimensioni, tanto che tutti i semi di piante orti col e ci arrivano dall’estero;
– se la ricerca pubblica italiana continuerà a vedersi proibita ogni possibilità di sperimentare piante ingegnerizzate di interesse nazionale, a fame le spese saranno la tutela della biodiversità agraria italiana che, senza ricerca, continuerà a ridursi; la possibilità di limitare l’impatto della chimica sulle coltivazioni nazionali; ‘ulteriore invasione da parte di semi e piante di provenienza estera con le logiche conseguenze di inquinamento per le nostre coltivazioni (si vedano i casi, della distruzione delle palme per il punteruolo rosso, di castagni, noccioleti, fino all’ultimo episodio di Xylella, un parassita importato con semi e piante d’importazione) e complessivamente la possibilità di rendere l’Italia un Paese più competitivo nel settore;
– preservare e implementare la biodiversità dell’agricoltura del Paese significa consentire alla ricerca pubblica la sperimentazione di due tipologie di piante geneticamente modificate:
a) le piante transgeniche, cioè quelle in cui vengono trasferiti geni presenti in specie diverse, che sono esenti da brevetti delle grandi multinazionali sementiere;
b) le piante non-transgeniche in cui sono trasferiti geni da altre piante della stessa specie o in cui funzioni della stessa pianta vengono spente anche usando le nuovissime tecnologie di evoluzione guidata;
– sono necessari investimenti mirati per lo sviluppo di tecnologie che descrivano le informazioni contenute nel DNA di piante d’interesse specifico per l’agricoltura italiana e dei suoi prodotti tipici, riguardanti i sistemi di difesa dai parassiti;
– il principale problema dei cultivar italiani è la loro suscettibilità alle malattie da parassiti, rispetto ai quali i recenti progressi delle conoscenze scientifiche sui sistemi genetici di difesa acquisiti evolutivamente dai genomi, potrebbero consentire di dotare le piante della capacità di resistere ai parassiti anche senza dover inserire geni estranei; in altre parole esiste un potenziale straordinario di sviluppo conoscitivo e innovativo che può scaturire dallo studio dei meccanismi di
difesa delle piante, che fino ad ora è stato poco sfruttato dalla ricerca biotecnologica;
– il melo è un esempio di pianta nelle quali le modifiche (intese come silenziamenti di .geni di cui al precedente punto b) garantiscono un vantaggio per i consumatori e non più solo per i produttori, con la consistente riduzione nell’uso di fungicidi;
– allestire una pianta che deriva dall’incrocio tra varietà commerciali e varietà selvatiche permetterebbe di accelerare di vari decenni l’ottenimento di una pianta che potrebbe nascere da un normale incrocio tra le due varietà, ma solo in un tempo troppo lungo, tempo durante il quale la pianta verrebbe ulteriormente appesantita dal già enorme carico di fungicidi che affliggono le coltivazioni;
– esempi analoghi di come ridurre l’allarme sociale per l’uso di pesticidi potrebbero essere le viti che evitano l’impiego di metalli pesanti come l’ossido di rame usato come fungicida a livello internazionale anche perché l’Italia non consente (a differenza della Germania) di fare miglioramento genetico mirato (non-transgenico) sulle piante di vite. Va ricordato che il rame essendo un metallo pesante resta nei terreni per varie decine di anni e che queste pratiche andrebbero scoraggiate a differenza di quanto accade ancora oggi per le coltivazioni biologiche di vite. Lo stesso problema deve essere affrontato per altre coltivazioni tipiche nazionali come il riso Carnaroli aggredito da altri tipi di funghi e la cui coltivazione sta ora scomparendo;
– in tal senso queste tecnologie mirano a preservare la biodiversità vegetale delle coltivazioni tipiche nazionali,
impegna il Governo:
1) a rilanciare, recependo la direttiva (VE) 2015/412, la ricerca biotecnologica agraria pubblica in Italia, prevedendo una disciplina per riprendere la sperimentazione in campo aperto delle innovazioni studiate in ambito pubblico, a tal fine valutando la possibilità di:
– approvare i protocolli sperimentali di messa in campo relativi a ogni singola pianta, pronti dal 2007;
- istituire una Commissione di valutazione delle richieste di sperimentazione, composta anche dai ricercatori più prestigio si e qualificati, sulla base delle migliori liste di pubblicazioni internazionali;
2) a individuare sul territorio dei campi sperimentali di interesse nazionale, differenziati in modo da poter rappresentare le differenti aree climatiche del Paese;
3) assegnare nuovi finanziamenti specifici per rendere possibili le ricerche su nuove piante e microrganismi utili in agricoltura, con particolare riferimento alle tecniche di garanzia della tutela della salute e alla lotta nei confronti dell’abuso di fertilizzanti chimici di cui sono conosciute le negatività, oltre che sulle valutazioni di impatto ambientale delle innovazioni che vengono sperimentate in campo;
4) attuare la ricerca sulle piante geneticamente migliorate che si occupi di:
– piante transgeniche esenti da brevetti delle grandi multinazionali sementiere, così da proteggere l’agroalimentare nazionale,
– piante e microrganismi utili per aumentare la fertilità dei suoli che hanno ricevuto geni da piante della stessa specie o, ancora
– piante con geni della pianta stessa spenti al fine di dotarle della capacità di resistere ai parassiti senza dover inserire geni estranei.