Cosa c'è che proprio non torna nelle idee di Boeri sulle pensioni
Le proposte, illustrate da Tito Boeri nella Relazione annuale 2015, non convincono per diversi motivi. Primo, il metodo: è corretto che il presidente di un Istituto previdenziale si sostituisca al ministro del Lavoro nel delineare un nuovo progetto di welfare e bocci, con disinvoltura e prosopopea, progetti di legge all’esame del Parlamento (si veda il caso del ddl Damiano-Baretta)? Ma le questioni di metodo sono senz’altro secondarie rispetto a quelle di merito. Le proposte odorano di “arsenico e vecchi merletti’’ e sono fondate su premesse culturali inaccettabili: secondo Boeri la tutela sociale per coloro che perdono il lavoro dopo i 55 anni non può che consistere – alla faccia delle politiche attive promesse dal Jobs Act Poletti 2.0 – nella corresponsione di un assegno assistenziale o in un anticipo della pensione, mentre sarebbe necessario lavorare più a lungo e investire sull’invecchiamento attivo (mediante l’avvio di politiche contrattuali e sociali più adeguate che consentano la ricollocazione e non la fuoriuscita dal mercato del lavoro). Ma Boeri insiste: con l’idea della “flessibilità sostenibile’’ entra, a gamba tesa, sulla principale terapia che tutta la letteratura previdenziale raccomanda da almeno mezzo secolo, da quando la demografia, un tempo vassalla degli input economici, oggi ha preso a condizionarli in modo stringente.
L’Europa – l’Italia in primo luogo – continuerà a essere investita da un ciclone demografico che renderà insostenibili e iniqui (per quanto riguarda gli stessi rapporti tra le generazioni) anche i modelli pensionistici più rigorosi. Oltre a tali effetti destabilizzanti dei trend demografici (completamente ignorati da Boeri) saranno i fabbisogni dell’occupazione – al netto dei flussi immigratori – a chiedere di allungare la vita attiva anche per assicurare, nel contempo, trattamenti più adeguati. Non si comprende per quale motivo si debba consentire un esodo anticipato, penalizzando, con criteri attuariali, l’importo dell’assegno in relazione agli anni di anticipo, in un paese che ha ormai introiettato le nuove regole della riforma Fornero. E’ insensato prepararsi ad avere, a breve distanza di tempo, dei “grandi vecchi” poveri, quando potrebbero non esserlo, se avessero posticipato, da anziani, il pensionamento. La spiegazione la svela Boeri. “Questa flessibilità – scrive – può anche essere molto utile durante le recessioni perché permette che una gran parte dell’aggiustamento del mercato del lavoro agli choc macroeconomici avvenga attraverso riduzioni dell’offerta di lavoro anziché generando disoccupazione come avvenuto negli ultimi 7 anni”.
[**Video_box_2**]In sostanza, si torna di nuovo lì: ai prepensionamenti di massa, come nel decennio 80 del secolo scorso (i casi, allora, furono 400 mila con un esborso cumulato di 50 mila miliardi di lire). Su tutto il Rapporto aleggia l’angelo vendicatore del ricalcolo con il metodo contributivo, sottoponendo alla gogna mediatica le pensioni più elevate. Il che desta qualche motivo di stupore visto che i trattamenti che maggiormente hanno tratto beneficio dalla “rendita di posizione” del sistema retributivo, non sono gli assegni più alti, ma quelli di livello intermedio e, segnatamente, acquisiti mediante il pensionamento anticipato di anzianità (ovvero le prestazioni erogate a persone con un’età inferiore a 60 anni e quindi titolari di un assegno percepito per un periodo più lungo). “Questi dati – citiamo uno studio di Fabrizio e Stefano Patriarca su Lavoce.info – evidenziano una situazione di grande iniquità distributiva nella quale lo stato trasferisce risorse ingenti per sostenere le pensioni più opulente e godute in età anteriori a 60 anni. Si è osservato da alcune parti – proseguono gli autori – che le pensioni di anzianità sarebbero state principalmente la “compensazione” al lavoro operaio e precoce. Non è così: nel milione di persone circa che è andato in pensione di anzianità, tra il 2008 e il 2012 compresi i dipendenti pubblici e gli autonomi, le pensioni inferiori ai 1.500 euro mensili, che comprendono verosimilmente quelle degli operai, sono solo il 18 per cento, e hanno complessivamente il 10 per cento della spesa pensionistica’’. Ecco dove sono le vere sanguisughe del sistema.