La fine della moneta facile mette i brividi
I mercati reagiscono come “uccelli spaventati dallo stridio di archi male accordati”. Ci voleva un analista cinese, Zhu Zhenxing di Minsheng Securities, per dare un tocco poetico alla frana che ha investito di nuovo le Borse cinesi. La diga eretta da Pechino a difesa delle Borse ha retto per tre settimane. A caro prezzo, visto che nella battaglia contro l’Orso sono stati impiegati più o meno 3 mila miliardi di dollari, un decimo del pil del Drago. Ma la frana è ripresa ieri. I motivi? Pesa la frenata dei profitti delle imprese, che lascia intendere un calo dell’economia superiore alle previsioni. Così come le vendite sulle materie prime: rame in testa, ma anche oro e petrolio, a conferma di come la “fabbrica del mondo”, tra Shanghai e Shenzhen, stia riducendo i consumi di commodities.
Le spiegazioni non mancano, anzi abbondano vuoi sul piano economico che politico e psicologico: la caduta delle Borse dimostra che il Partito sta perdendo la sfida con i mercati, una sconfitta inedita nella storia della Repubblica popolare. E così la Borsa, che nei disegni di Xi Jinping doveva prendere a breve il posto della City, è costretta a lasciare nel limbo dei sospesi più di un terzo dei titoli del listino. Un trauma che avviene, non a caso, alla vigilia del vertice della Fed che dovrebbe annunciare per settembre il primo rialzo dei tassi americani, una prospettiva che ha già colpito i mercati delle materie prime che finora (petrolio compreso) hanno retto solo grazie al basso costo del denaro che ha consentito di detenere grosse riserve senza costi insostenibili. Ora la musica cambia: ne fanno le spese i paesi produttori di commodities, Brasile in testa, che hanno puntato su Pechino per affrancarsi dalla locomotiva statunitense.