Lo yuan è rimandato
Milano. Spiacente, riprovi tra un anno. Il Fondo monetario internazionale ha rimandato la richiesta cinese di ammettere lo yuan, assieme a dollaro, euro e yen, nel paniere delle valute che partecipano alla formazione dei Diritti speciali di prelievo, unità di conto del Fmi e valuta internazionale in nuce. La decisione, comunicata ieri, è stata presa dal board del Fmi l’11 agosto scorso, quando Pechino ha dato il via al processo di svalutazione del cambio giustificato da Pechino, tra l’altro, proprio per garantire alla moneta la flessibilità necessaria per entrare nel club delle monete “vip”. In questo senso, la scelta del Fmi ha il sapore della beffa. Oppure suona come lo sprone per accelerare le riforme prima del prossimo esame.
Comunque sia, si tratta della seconda bocciatura finanziaria per la Cina nel giro di tre mesi. A metà maggio, Morgan Stanley aveva respinto la richiesta di includere le azioni quotate a Shanghai e a Shenzhen nell’indice Emerging Markets, il punto di riferimento su cui i gestori misurano le performance di fondi e gestioni patrimoniali. Una decisione che ha evitato a milioni di ignari investitori il rischio di subire gli effetti del tracollo dei listini del paese del Drago iniziato il 12 luglio. Anche in quel caso il “no” era stato motivato dai limiti alla libera circolazione dei prodotti della finanza cinese, opinione confortata dai pesanti interventi statali di questi mesi, comunque insufficienti a frenare il ribasso. Ora il problema si ripropone sul fronte valutario: la scelta di svalutare il renmimbi è giustificata sia dalla frenata dell’industria manifatturiera sia dall’ammontare complessivo del debito dell’economia cinese, pari al 282 per cento del pil. Un’ipoteca inquietante che ha consigliato a madame Lagarde di chiedere un rinvio, prima di aprire le porte del club.