Non solo pil. Ragioni libertarie per abbattere le frontiere
Al direttore - Aprire le frontiere per far raddoppiare il pil mondiale o sigillarle per privatizzare ogni angolo di territorio? Nel dibattito aperto dal Foglio a partire dalle posizioni libertarie statunitensi degli “open borders” si registrano divergenze tali da suggerire di optare per la “navigazione a vista” indicata da Carlo Lottieri. Certamente, come per ogni politica, la misurazione degli effetti, dei costi-benefici di ogni strategia, è indispensabile per non confinare il dibattito nel terreno dell’ideologia, a maggior ragione su un tema così complesso. Ma se si vuole stabilire almeno la direzione di marcia e l’obiettivo verso il quale tendere, allora una scelta ideale è ineludibile e corrisponde alla risposta che si vuol dare alla domanda: “E’ giusto che ogni essere umano sia libero di andare a vivere dove vuole in giro per il pianeta?”.
Risponde “no” chi ritiene che lo stato sia sovrano e debba decidere, più o meno democraticamente, chi può entrare e chi no. Potrà poi decidere di avere una politica più o meno aperta, ma la sovranità rimane, e l’essere umano si adegua a seconda di dove gli è capitato di nascere. Personalmente, invece, rispondo “sì”: il pianeta – inteso come risorse naturali che includono il territorio, le acque, l’atmosfera – è patrimonio comune di chi viene al mondo. Agli stati può essere affidata la gestione di alcune parti e aspetti di quel patrimonio. Agli individui possono essere attribuiti diritti di proprietà funzionali a riconoscerne l’opera e promuoverla. Ma le risorse che consentono alla specie umana di continuare a esistere sono condivise dalla specie umana al di là delle scelte e volontà individuali, come sono lì a dimostrare il riscaldamento climatico, l’inquinamento ambientale e altri fenomeni su scala globale oltre che locale. In altri termini: la terra è di tutti, e se è di tutti, l’abolizione delle frontiere è un obiettivo da iscrivere in quanto tale nell’agenda politica, operando per rimuovere – gradualmente, pragmaticamente e democraticamente – gli ostacoli che renderebbero politicamente insostenibile l’eliminazione dalla sera alla mattina delle frontiere di uno stato nazionale (soprattutto se ricco).
Se l’abolizione delle frontiere è un riferimento ideale verso il quale tendere, sarebbe sbagliato e controproducente provare a imporla come soluzione ideologica immediata. L’analisi costi-benefici è ineludibile, e su questo il contributo degli studiosi “open borders” aggiunge un tassello fondamentale ai dati dei demografi sull’invecchiamento della popolazione nei paesi di immigrazione e su quanto una certa quantità di migranti sia indispensabile a integrare la forza lavoro. L’argomento economico – nella versione più estrema, quello del pil che “raddoppierebbe” e dei miliardi di euro che l’occidente “lascia sui marciapiedi” con la chiusura delle frontiere – è importante, ma non esaustivo. La stessa iniezione di forza lavoro fresca in società invecchiate è sì fondamentale in una fase di transizione, con tantissimi anziani e pochissimi giovani, ma nel lungo periodo ci sarà un assestamento, in un contesto dove il progresso tecnologico è destinato a rimpiazzare sempre più il lavoro (anche qualificato) e, al tempo stesso, a mantenere anche le persone anziane nelle condizioni di essere lavorativamente attive abbattendo barriere fisiche e sensoriali.
Se le considerazioni sul piano del benessere economico, al contrario di quello che vorrebbero i movimenti politici anti immigrati, non scoraggiano comunque l’apertura delle frontiere, i fattori sociali e culturali sono decisivi sul piano della sostenibilità democratica. Il libertarismo open borders pare metterlo in conto a spese della democrazia stessa, rievocando i diversi status dei cittadini della Roma imperiale e prevedendo (quasi auspicando) un superamento della democrazia paritaria come prezzo da pagare per cogliere il ricco frutto delle frontiere aperte. Anche in questo caso, le motivazioni ideali non sono eludibili. La persona umana, oltre che essere libera di muoversi, deve essere libera in generale e avere diritto a restare tale. Certo, più si aprono le frontiere in condizioni di forti disparità economiche, più sono necessarie correzioni al welfare state. Monti, fiumi, spiagge e laghi sono di tutti; i soldi per la previdenza e l’assistenza sono soprattutto di chi ha versato i contributi. E’ del tutto ragionevole, dunque, fare in modo che lo stato sociale non sia sbancato dall’apertura delle frontiere, che ci sia una gradualità nel maturare diritto a prestazioni sociali e che l’immigrazione non sia utilizzata come leva di rivincita delle grandi burocrazie statali e parastatali per imporre un’economia assistenzialistica. Un welfare meno statale, più locale e disintermediato potrebbe essere una strategia in grado di accompagnare positivamente gli open borders. Ma i diritti civili, politici, economici e sociali riconosciuti come diritti fondamentali non solo non devono essere intaccati, ma vanno rafforzati per impedire che confini più aperti siano propizi allo sviluppo di fondamentalismi di ogni risma. Bisogna ora essere conseguenti, liberando le nostre società da ogni legge che opprime le facoltà umane sui temi della vita (salute riproduttiva, eutanasia, droghe, ricerca scientifica…) e impedendo con fermezza ogni pratica di sottomissione di una persona (specie se donna) all’altra (mutilazioni genitali, matrimoni forzati, poligamia…).
Ci sono poi i fattori determinanti per diminuire la pressione migratoria verso i paesi ricchi, che devono accompagnare politiche di graduale apertura delle frontiere. Innanzitutto la diminuzione della pressione demografica, attraverso l’affermazione universale del diritto alla salute riproduttiva con metodi non-coercitivi, ma preventivi (Pannella lo chiama “rientro dolce” della popolazione), cioè fondati sul diritto all’informazione sessuale e alla contraccezione, oltre che all’aborto sicuro. La liberalizzazione degli scambi commerciali è importante per riequilibrare almeno in parte le differenze di salario tra paesi ricchi e poveri. La cooperazione internazionale dovrebbe essere rilanciata non solo attraverso progetti di sostegno economico, ma soprattutto attraverso azioni volte a rafforzare la certezza del diritto e la capacità delle persone di comportarsi da cittadini, cioè quella “transizione allo stato di diritto” e affermazione del “diritto alla conoscenza” che il Partito radicale propone in sede di Nazioni Unite.
In conclusione: impedire alle persone di andare a vivere dove vogliono è sbagliato sul piano ideale e produce innanzitutto morte e sofferenza, oltre a svantaggi economici significativi. Ma aprire le frontiere non è una soluzione di per sé, quanto piuttosto un obiettivo che richiede a sua volta, per essere praticabile, soluzioni e misure strutturali il più possibile fondate sulla democrazia liberale, laica, federalista e antiproibizionista.
Marco Cappato è tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni