L'industria di stato batte un colp(ett)o
Il cambiamento siamo noi”, è lo slogan scelto da Poste per pubblicizzare l’iter iniziato ieri che condurrà alla quotazione in Borsa di Poste Italiane, le cui azioni saranno scambiate a partire dal 26 ottobre. Gli investitori possono aderire all’Offerta pubblica di acquisto che porterà sul mercato il 38,2 per cento di Poste; valore attorno ai 4 miliardi di euro per un gruppo che vale 10 miliardi circa. Mentre il governo britannico ha annunciato, nelle stesse ore, che venderà la restante quota in suo possesso (14 per cento) di Royal Mail, nella convinzione di “generare valore per il contribuente”. La stampa ha definito l’operazione di Poste come la più grande privatizzazione italiana da 15 anni. Per il momento, più precisamente, bisognerebbe parlare di parziale cessione a privati della rendita monopolistica di Poste nelle spedizioni e in alcuni servizi finanziari con la quale lo stato ambisce a fare cassa.
E’ evidente che lo sbarco in Borsa senza avere scorporato le complesse e sovrapposte attività della conglomerata – servizi bancari, assicurativi, spedizioni – potrebbe spingere gli investitori a battersi affinché non perdano mai la possibilità di guadagnare sulla rendita monopolistica postale e questo potrebbe ritardare un processo di liberalizzazione completa del settore che invece gioverebbe ai consumatori. La prossima quotazione di Ferrovie dello stato pare ricalcare lo stesso canovaccio. Un segnale comunque c’è, e di dimensione non insignificante, vista la ramificata presenza dello stato nella nostra economia. E se Poste è “la madre delle privatizzazioni di inizio millennio”, c’è ora da sperare che non faccia figli ciechi – in rampa di lancio ci sono Enav e STMicroelectronics – e che un robusto processo di privatizzazione coinvolga le 10 mila partecipate pubbliche. Il governo Renzi e il comune di Roma potrebbero dare il buon esempio concentrandosi sulle municipalizzate romane Atac e Ama.