Banche che aiutano le banche
Il settore bancario italiano aveva dimostrato una resistenza rara all’inizio della crisi mentre altri paesi consumavano miliardi di fondi nazionali ed europei per tamponare piccole e grandi banche ingolfate dalla bolla immobiliare (Spagna, Irlanda) o per difendere istituti cari alla politica (Germania). La capacità di resistere agli choc spendendo assai meno degli altri paesi e in caso ricavando plusvalenze – come sui prestiti pubblici contro salati interessi rimborsati in toto dal Monte dei Paschi di Siena – si è tuttavia trasformata in una resistenza sostanziale a cambiare registro in fatto di gestione. Resistenza che ha alla lunga spinto il governo, di concerto con la Banca d’Italia, a emanare questa domenica un decreto per recuperare quattro banche regionali del centro-nord già commissariate da Banca d’Italia per gravi falle bilancistiche e irregolarità gestionali degli amministratori.
La tempistica fa sospettare che si volesse evitare di arrivare a un completo bail-in, in vigore da gennaio, perché questo avrebbe penalizzato anche gli investitori retail di obbligazioni senior, uno dei principali canali di finanziamento delle banche, che in questo frangente vengono risparmiati. E’ sbagliato parlare di un’operazione a danno di contribuenti o correntisti. L’operazione di risoluzione degli istituti avviene infatti per mezzo dell’intervento delle altre banche private nazionali e prende la forma caldeggiata dalla Commissione europea che aveva informalmente diffidato governo e Banca d’Italia dall’usare il Fondo interbancario di tutela dei depositi, un consorzio di tutte le banche costituite in società per azioni, perché ritenuto ufficiosamente un “aiuto di stato”. Invero sarebbe pure stato complicato avere rapida approvazione dai cda di oltre cento istituti riuniti nel Fondo. La Commissione negli stessi giorni aveva acconsentito al finanziamento pubblico delle banche greche da ricapitalizzare in quanto vitale per la credibilità dell’economia di Atene. Classico “double-standard” brussellese. Sta di fatto che la Commissione ha benedetto la scelta di “usare gli strumenti di risoluzione per la prima volta in Italia” non appena il Cdm ha autorizzato la risoluzione di Banca Marche, Banca Popolare dell’Etruria e del Lazio, Cassa di Risparmio di Ferrara e Cassa di Risparmio della provincia di Chieti (rappresentano l’1 per cento del sistema per mole di depositi).
[**Video_box_2**]L’operazione prevede la creazione di quattro banche, dette “nuove”, ovvero liberate dai crediti deteriorati che verranno stivati in un unico veicolo comune, “bad bank”, per essere ceduti a investitori specializzati. I discorsi su una bad bank nazionale proseguono da mesi senza una soluzione, anche per l’opposizione Ue all’ipotesi di garanzie pubbliche sui bad loans. L’operazione vale 3,6 miliardi. Per 1,3 miliardi contribuiscono i detentori di obbligazioni subordinate e gli azionisti (risparmiati gli obbligazionisti senior che con il bail-in avrebbero subìto perdite). A contribuire con 2,3 miliardi è l’Unità di risoluzione, entità separata della Banca d’Italia (non è ancora istituito un fondo europeo di risoluzione, osteggiato dai tedeschi). L’operazione può cominciare solo grazie al prestito elargito al Fondo da Intesa, Unicredit e Ubi per 1,3 miliardi a testa. Ovvero banche sane che si sono private temporaneamente di liquidità per rianimare banche zombi oramai fuori mercato. Sarà stata pure una scelta obbligata, ma ora Roma può rivendicarla come relativamente virtuosa nelle future trattative brussellesi.