Il fattore D in Borsa
Roma. Assediati dai fattori esterni – sboom della Cina, guerre arabe e gioco al ribasso sul petrolio, Banche centrali dominanti e ora anche divergenti come Banca centrale europea e Federal reserve americana; senza contare la questione immigrazione – i mercati e le economie pubbliche sembrano seguire una navigazione alla giornata che da Hong Kong passa per le Borse e gli spread europei e approda a Wall Street, per ricominciare la mattina dopo. Ieri il rimbalzo dai tracolli da inizio anno, che hanno bruciato 2.300 miliardi di dollari di capitalizzazione, è fallito nonostante i dati positivi dell’occupazione americana. Ieri anche le Borse europee hanno fallito il tentativo di rimbalzo e hanno chiuso l’ultima seduta della settimana in negativo, Milano a meno 1,58, nonostante il recupero delle piazze cinesi.
Se però si alza lo sguardo da queste rotte scrutando un po’ oltre l’orizzonte – non molto oltre – ci si accorge che su tutto incombe quella che ormai non si può più definire una variabile (ne sappiamo quasi tutto, volendo), una perturbazione molto più vicina di quanto pensiamo: il fattore D, che sta per demografia. Eppure non se ne accenna negli “zero virgola” dell’Eurozona, nelle clausole di flessibilità di Bruxelles; non ce n’è traccia nelle slide renziane; appena più, ma come subordinata delle aperture ai rifugiati siriani, vi si riferisce Angela Merkel. Così le ultime previsioni sulla demografia e sulle sue conseguenze in Europa, Gran Bretagna e Stati Uniti vengono non dai policy maker, ma dal mondo della finanza privata e dell’investimento, con un dossier dell’ufficio ricerche di Unicredit a cura dell’economista Edoardo Campanella (intitolato “Il baratro demografico si sta avvicinando”), e un altro intervento di Bill Gross, cofondatore del fondo obbligazionario Pimco, oggi a capo di Janus Capital, estroso e seguito guru finanziario. La conclusione è che il mix in Occidente tra calo delle nascite e invecchiamento della popolazione porterà in pochissimo tempo – il processo è in corso dal 2015 e andrà a regime nei prossimi 10-15 anni – a un fenomeno così sintetizzabile: i baby-boomers, cioè i nati dal 1945 al 1965, artefici della ricchezza post bellica, gravano sempre più sui giovani meno ricchi e meno assistiti. Fin qui lo sapevamo: “Boomers are booming e workers are losing”, dice Gross. L’ufficio studi di Unicredit stima però che questo produrrà anche una minor crescita annuale del pil dello 0,8 per cento nell’Eurozona, dello 0,5 per cento in America, dello 0,4 in Gran Bretagna. Le differenze sono dovute a quella che lo studio definisce la “piramide pura” europea delle fasce d’età, con i 45-49enni e 50-54enni sovrastanti tutte le altre; invece negli Stati Uniti i picchi sono due: 20-24 anni, e 50-54. La popolazione americana in età di lavoro è così più precoce, con la maggiore concentrazione a 35-39 anni. In compenso proprio la maggiore età media degli europei, e finora una minor presenza degli anziani nel mondo del lavoro, può costituire una chance in quanto c’è un’abbondanza di ultrasessantenni disponibili in teoria a lavorare. Inoltre le riforme (e un po’ di austerity) fanno sì che l’età effettiva di ritiro dal lavoro, che nel 1970 in Europa era la più alta (oltre i 68 anni) e poi è sprofondata a 61 anni, ora stia risalendo.
[**Video_box_2**]Nulla però potrà mutare gli effetti negativi della demografia se non si modifica la partecipazione al lavoro “in termini espansivi, allargando i confini dell’età lavorativa” e “intensivi, aumentando la quantità di persone che effettivamente lavorano nell’età deputata”, a cominciare dalle donne. L’iconoclasta Bill Gross vede gli ex baby boomers “indotti a vendere anno dopo anno i beni accumulati negli anni d’oro a qualcuno e qualche paese in grado di pagargli i conti. Ma con i tassi a zero, il ritorno sarà minimo”. Questo avrà conseguenze sulle protezioni sociali, sulle tasse e quindi sulla finanza pubblica. La conclusione: “Deficit più demografia uguale disastro”.