Pil sotto le attese. Nei dati, un suggerimento (imperativo) al governo Renzi
Il deludente dato del pil certificato venerdì dall’Istat rispetto all’ultimo trimestre del 2015 (più 0,1) e rispetto anche al dato complesso relativo alla crescita dello scorso anno (più 0,7 per cento, due decimali in meno rispetto al più 0,9 previsto a settembre dal Mef) conferma che il Foglio non aveva tutti i torti quando lo scorso anno, a maggio, scrisse che i numeri sulla crescita previsti per il 2015 ci dicevano, già all’epoca, che sull’economia, purtroppo, non esiste nessun concreto “effetto Renzi” (nello stesso periodo il pil è aumentato in termini congiunturali dello 0,2 per cento negli Stati Uniti e in Francia e dello 0,5 per cento nel Regno Unito. In termini tendenziali, si è registrato un aumento dell'1,9 per cento nel Regno Unito, dell'1,8 negli Stati Uniti e dell'1,3 in Francia).
Il 18 maggio 2015 il Foglio scriveva: “Il governo stima di crescere nei prossimi anni circa del 2 per cento: 0,7 quest’anno, 1,3 nel 2016. In tutto fa due per cento. Di questo due per cento, l’1,2 per cento va attribuito agli effetti che avrà il quantitative easing (e dunque Draghi) sulla nostra economia (stime Bankitalia). Una cifra tra lo 0,4 e lo 0,2 per cento va attribuita all’effetto che avrà sulla nostra crescita l’abbassamento dei prezzi del petrolio (stime Prometeia). Lo 0,2 per cento va attribuito all’effetto Expo (stime Confcommercio). Un altro 0,2 per cento va attributo (stime Prometeia) a quello che è il piccolo effetto del piano degli investimenti Juncker. Totale: tra l’1,8 e il 2 per cento. Esattamente quanto stima di crescere il governo nei prossimi due anni”.
L’effetto Renzi, dunque, almeno dal punto di vista economico, è esistito, lo scorso anno, soprattutto grazie a fattori esterni (la flessibilità in Europa è un tema che Renzi ha contribuito a imporre ma finora abbiamo visto le briciole, e siamo sempre al passo della lumaca) e l’insieme dei provvedimenti economici messi insieme finora dal governo (gli 80 euro, il taglio dell’Irap, il bonus scuola, le misure sulle famiglie previste nell’ultima legge di Stabilità) hanno avuto un impatto sulla crescita del paese relativo a qualche punto decimale.
[**Video_box_2**]I dati appena pubblicati dall’Istat ci dicono che l’Italia, nonostante le buone performance nel rapporto deficit/pil, resta uno dei paesi con la crescita più bassa tra i grandi dell’Europa, uno dei paesi con la disoccupazione più alta tra i grandi dell’Europa e resta uno dei paesi con il debito pubblico più alto del mondo. Il segnale arrivato dai dati sulla crescita deve essere letto anche a Palazzo Chigi come un suggerimento, imperativo, a non traccheggiare con quelle riforme che possono cambiare la direzione dell’Italia: taglio della spesa pubblica, taglio del debito, privatizzazioni, liberalizzazioni, tasse da abbassare riducendo le spese e non chiedendo più soldi all’Europa.
L’anno in corso è importante per Renzi perché è l’anno in cui si capirà se le riforme – che ci sono state – avranno un effetto anche sull’economia reale. Lo scorso anno qualcosa si è mosso. La disoccupazione è scesa di qualche decimale (anche se i dati sull’occupazione non sono ancora buoni). Il Jobs Act ha smosso qualcosa nell’economia e ha smosso molto a livello simbolico, nel paese del posto fisso senza se e senza ma. Tuttavia per arrivare al referendum con il vento in poppa, e avere la forza di superare questa fase complicata sui mercati finanziari, il governo deve tornare ragionare meno con la logica del consenso e più con la logica del buon senso. Il resto, forse, verrà da sé.