Numeri, ripresine, vox populi
I dati macroeconomici recenti fotografano un’Italia che va un po’ meglio del previsto. Il pil cresce nel 2015 dello 0,8 per cento, appena sotto le rosee previsioni d’autunno, prima dei venti di crisi mondiale; ma due decimali sopra quanto stimato un anno fa. Ciò che più conta, in sostanza, è l’uscita dalla recessione dopo tre anni: il 2014 si era chiuso a meno 0,3 (rivisto al rialzo dall’Istat), la variazione sono 1,1 punti, in valori assoluti un punto e mezzo. Calano il deficit (al 2,6) e, perfino, la pressione fiscale (43,3). Quanto al lavoro, a gennaio ci sono 99 mila posti fissi in più, che detratti i precari in meno danno un saldo di 70 mila nuovi occupati. L’Italia però, come in diversi altri ambiti socio-economico-giuridici, resta in coda a un’Europa che cresce in media dell’1,8, con la Francia all’1,2, la Germania all’1,7, il Regno Unito al 2,2. La disoccupazione tedesca (6,2 per cento, stabile) è poco più della metà della nostra, quella inglese è al 5,1 per cento. Nel complesso l’economia continentale pare avviata alla guarigione. Ma gli umori dei consumatori raccontano un’altra storia: a febbraio i prezzi europei sono scesi dello 0,2 per cento rispetto al più 0,3 del mese prima. Stessa cosa in Italia, con l’inflazione acquisita per il 2016 a meno 0,6. Inflazione al contrario, cioè deflazione. Mentre le Borse festeggiano e gli operatori si fregano le mani aspettando i nuovi “bazooka” monetari della Banca centrale europea, le famiglie si tengono stretti i soldi segnalando quasi ovunque lo scollamento dalle loro leadership politiche. Basta vedere gli esiti elettorali in Spagna, Portogallo e Irlanda, paesi usciti dalla crisi, dove i partiti di governo hanno tutti perso la maggioranza.
Dunque c’è una generalizzata sfiducia verso le politiche nazionali e ancora più comunitarie che le vincolano: l’opposto dell’entusiasmo post bellico quando pure vincitori e vinti erano accomunati dalla miseria. Bruxelles è inadempiente su tutto, dalla questione migranti (comunque la si veda) alla prossima crisi annunciata del calo demografico. Preferisce inseguire i decimali di deficit ed ecco i risultati. Ma anche le ricette nazionali sono inadeguate, viziate dalla frammentazione identitaria: in Irlanda tre partiti di centro nazionalista; in Spagna e Francia due destre e due sinistre. Resta stabile il sistema tedesco, senza radicalismi e con coalizioni pragmatiche nel nome dell’interesse nazionale, e del benessere dei contribuenti. Sotto questo aspetto, il progetto a-ideologico di partito della nazione attribuito a Matteo Renzi può non essere una cattiva idea. Certo, nata da una squisita logica di potere: ma qual è l’alternativa ai vecchi vizi e alle patetiche ambizioni della sinistra, e ai settarismi tipo primarie romane della Lega, il cui risultato è poi molto pratico e non è desiderabile?