L'incantesimo monetario finirà
Nelle mosse espansive dei banchieri centrali c’è un sottostante spesso negato, per esempio da Mario Draghi: l’obiettivo di indebolire le rispettive valute per facilitare l’export. Ma per ora questa guerra la stanno vincendo gli Stati Uniti. Contro la logica classica, visto che la Federal Reserve è l’unica ad avere iniziato, sia pure al rallentatore, un rialzo dei tassi. La presidente Janet Yellen pur lasciando l’interesse base tra lo 0,25 e lo 0,5 per cento ha annunciato due aumenti nel 2016, il che significa che i rendimenti dei T-bond aumenteranno almeno dello 0,87 per cento. Dunque a dicembre un titolo decennale del Tesoro americano renderà in media oltre il 2,9 per cento contro l’attuale 0,2 dei Bund tedeschi (e l’1,3 dei Btp). Ma i capitali non fuggono verso il biglietto verde. Nonostante i bazooka draghiani, da inizio anno il dollaro si è indebolito sull’euro del 4 per cento, e come nota il Wall Street Journal la moneta europea è in affollata compagnia: tutte le Banche centrali che attuano politiche ultra-espansive vedono rafforzarsi le proprie valute, dalla sterlina allo yen, dal franco svizzero alla corona norvegese.
E questo un po’ per l’esaurirsi dello slancio americano (l’indice di fiducia dei consumatori dell’Università del Michigan è sceso a 90 punti, peggio delle attese), e soprattutto perché il gioco al ribasso mondiale produce somma zero, mentre si riducono gli strumenti a disposizione. Così viene meno uno dei tre “fattori esterni” – euro debole, ribasso del petrolio, denaro facile – che dovevano produrre quasi da soli la ripresa. E si conferma che invece urgono le riforme. Perché l’incantesimo monetario, prima o poi, si spezza.