Un po' di stato e la banca va giù
Le regole europee sulla risoluzione delle banche in crisi, con annesso bail-in, cioè il coinvolgimento nel salvataggio di azionisti, obbligazionisti e correntisti sopra i 100mila euro, sono teoricamente sacrosante e tutt’altro che incostituzionali. Tuttavia i governi degli stati membri dell’Unione europea e gli analisti di ogni sorta possono legittimamente giudicare le stesse troppo “rigide” in alcune situazioni, specialmente se le carenze sono trasversali quasi all’intero settore creditizio di un grande paese come l’Italia. Il motto “Fiat iustitia et pereat mundus” è bene che resti soltanto un motto, infatti, non una cura da far espiare scientificamente a tutto il settore del credito. Detto ciò, in Italia c’è la sensazione che il discorso pubblico ecceda oramai nell’errore opposto: quello di ritenere che un qualsiasi intervento pubblico nelle banche in difficoltà – in maniera indifferenziata se si tratti solo di sofferenze eccessive o di scarsa patrimonializzazione – possa essere positivamente risolutivo.
Eppure osservare laicamente la realtà direbbe ben altro: come ha osservato Stefano Cingolani nell’edizione weekend di questo giornale, agli ultimi stress test sono risultate tra le peggiori le banche europee controllate dai governi, come la britannica Royal Bank of Scotland, l’irlandese Allied Banks e la tedesca Commerzbank. Tutto sta a riconoscere che l’ecosistema in cui l’intervento pubblico si realizza conta eccome. I salvataggi all’americana degli istituti di credito furono straordinari, tempestivi e fortemente condizionati (con parziale scorno dei banchieri). Una cura statalista e a tempo indefinito, se praticata in un sistema già di per sé poco concorrenziale e abituato ad avvantaggiarsi di nicchie di protezione di ogni sorta, può invece incancrenire le difficoltà. Europei e italiani sono avvertiti.