L'habitat dei neo protezionisti
Non c’è dubbio sul fatto che la globalizzazione sta attraversando il più importante test da decenni. Il voto del Regno Unito a giugno per lasciare il blocco politico-commerciale dell’Unione europea assieme alla prospettiva di una vittoria alle presidenziali americane di un protezionista dichiarato come il repubblicano Donald Trump o della democratica Hillary Clinton, che potrebbe dare il colpo letale al trattato di libero scambio tra Stati Uniti e Unione europea, sono motivi di preoccupazione. Il finanziere Carlo De Benedetti, pur pessimista per le sorti del globo, nel suo piccolo si unisce alla ritirata dell’élite (“Abbiamo consentito alla globalizzazione di espandere i suoi benefici per tutti noi. Ma sono aumentate drammaticamente le differenze tra chi ha e chi non ha”, ha detto al Corriere). E’ un momento perfetto per i “globalisti” pentiti.
Lo spettro del protezionismo non risparmia alcun luogo e cresce senza sosta – negli ultimi due anni per esempio i governi del G20 hanno preso 350 misure contro il libero scambio e altre arriveranno. Intanto la depressione dei commerci internazionali s’acuisce – per la prima volta in quindici anni la crescita del commercio mondiale sarà più bassa di quella del pil, dice il Wto. L’indice dei commerci marittimi di merci solide (Baltic Dry) langue a livelli infimi dal 2013 e lì sta. Il fallimento nell’agosto scorso di Hanjin Shipping, colosso coreano dei portacontainer, la “Lehman” del commercio oceanico, sta producendo riverberi in 43 paesi, porti italiani compresi. Il motore economico che ha sostenuto il mondo nei passati 70 anni non è il male. Adesso ha la febbre, ma i medici anziché curarla battono in ritirata.