Cosa c'è sotto la gonna di Lady Spread
Gli investitori istituzionali sui mercati finanziari hanno iniziato a prendere nota dell’aumento del rischio politico per l’Italia – non solo derivante dal referendum costituzionale del 4 dicembre – e a cercare di coprirsi di conseguenza con vendite di titoli di stato tricolore. Vendite per ora moderate ma significative perché possono rappresentare l’anticamera di movimenti futuri più rilevanti. Cominciano infatti a manifestarsi alcuni indizi che inducono gli analisti delle sale operative a dire che “per ora non ci sono segnali forti, ma i segnali deboli non sono belli”. Il valore dei credit default swap, titoli di assicurazione contro il fallimento dell’emittente, in questo caso lo stato italiano, è in aumento da settembre. Il differenziale tra i titoli di stato decennali italiani, i Btp, e gli omologhi tedeschi, i Bund, s’espande da almeno cinque giorni, arrivando ieri vicino ai 160 punti; livello ben al di sotto dei 500 visti prima della staffetta tra governo Berlusconi e governo Monti nell’estate 2011. Nei giorni scorsi investitori e fondi esteri hanno venduto Btp anche per un miliardo di euro a volta.
Ma la sensazione è che il mercato viri davvero al peggio solo quando si registrano vendite molto aggressive di titoli a breve scadenza (da zero a due anni) perché le tesorerie e le banche riducono rapidamente l’esposizione su un paese. Cosa per il momento limitata. Tutti questi segnali suggeriscono che l’Italia è uscita da una condizione di normalità che potrebbe diventare patologica se una serie di fattori, latenti o già presenti, congiurano contro. La periferia della zona euro è osservata con particolare attenzione. Un sondaggio condotto a fine ottobre tra 1.039 investitori dall’istituto di ricerca Sentix, sito a Francoforte, attribuisce per la prima volta all’Italia una probabilità superiore di uscire dall’Eurozona rispetto alla Grecia, paese sotto tutela dei creditori internazionali dal 2010. Il 9,9 per cento di probabilità per Roma, contro l’8,5 per cento di Atene. Numeri non apocalittici (come ricordato ieri dal Corriere) se si pensa che nel 2012 lo stesso sondaggio attribuiva alla “Grexit” – poi non avvenuta – una probabilità del 70 per cento.
Dei sentimenti e dei sondaggi in realtà il mercato non se ne fa granché, solitamente gli economisti (seri) snobbano gli umori di investitori e imprenditori. Infatti guardano ai fondamentali. A questo proposito è utile confrontare l’andamento dei rendimenti dei titoli di stato italiani, indice del rischio paese, con quelli spagnoli. Il differenziale tra Btp e Bonos è salito dopo che il governo conservatore di Mariano Rajoy ha ottenuto la fiducia del Parlamento sabato scorso concludendo dieci mesi di impasse. Il Partido Popular è tornato al legittimo comando della quarta economia dell’euro che ha i numeri per raggiungere una crescita del pil a fine anno del 3,2 per cento e un tasso di disoccupazione sceso nel terzo trimestre sotto il 20 per cento, minimo da sei anni. La Spagna gode di una certa stabilità e non ha grandi problemi relativi alla legge Finanziaria con la Commissione europea. Mentre la crescita dell’Italia è microbica e la Finanziaria renziana, che dà molto all’ampia platea dei pensionati e poco ai giovani, in un paese senilizzato, è oggetto di una diatriba a viso aperto con Bruxelles.
Renzi inoltre s’è speso in prima persona per la vittoria del Sì al referendum costituzionale e potrebbe subire forti pressioni a dimettersi se dovesse perdere la scommessa; e nell’agone politico non c’è un sostituto pronto. Una vittoria del No si presta a varie interpretazioni sui ricaschi conseguenti. La reazione immediata che si avrebbe, notava un report di Mediobanca Securities, è una forte pressione sui titoli delle partecipate di stato come Eni, Enel, Finmeccanica, Poste Italiane. Un calo generalizzato del listino azionario espone anche società quotate di massima rilevanza a scalate estere. Nelle ultime settimane si è tornato a vociferare (ma sono solo rumors) di un possibile attacco alle assicurazioni Generali, pilastro del capitalismo finanziario italiano. Ovvio, sarebbe un colpo. Tuttavia l’incertezza può non essere un danno assoluto. Almeno, non lo è per tutti. L’acquisizione di Baker Hughes da parte di General Electric per 25 miliardi di dollari a poco più di un mese dalle elezioni americane più indecifrabili del decennio dimostra che i rischi politici possono essere anche un’opportunità d’oro per fare affari. “Il momento è adesso – ha detto appunto il capo supremo di Ge Jeff Immelt – quando c’è un alto livello di incertezza, non quando le cose sono note”. Se nel breve periodo il No al referendum spingerebbe gli investitori a sciamare sull’azionario italiano, nel medio termine non è detto che avvenga l’apocalisse che molti temono.
Alcuni uomini d’affari consultati dal Foglio stanno infatti iniziando a pensare che la vittoria del No potrebbe portare l’Italia a sperimentare con continuità un assetto grancoalizionista, un “governo di salute pubblica” multipartitico, nel tentativo sia di parare gli strascichi della speculazione in Borsa sia di arginare i populismo – cosa che con un sistema elettorale proporzionale a doppio turno con un generoso premio di maggioranza potrebbe accadere con meno facilità, dato che il modello Italicum più riforma costituzionale darebbe teoricamente la possibilità di vincere le elezioni anche al Movimento 5 stelle (è l’eterna sfida tra chi vuole sfidare i populismi e chi invece li vuole sfiancare). In controluce poi, tra le ragioni che possono spiegare la parziale instabilità di questi giorni, c’è anche la pressione tedesca sul presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, giunto al quinto anno del mandato settennale, per rientrare almeno parzialmente dal Quantitative easing. Il programma di acquisto di titoli sovrani ha protetto l’Italia dalla speculazione negli ultimi due anni e l’indicazione di un suo esaurimento a marzo 2017 priverebbe il paese di una difesa immunitaria dalla quale è oramai dipendente. La Bce ha lasciato intendere che il programma andrà avanti ma anche qui qualcosa è possibile che cambierà. E tutto questo non fa che alimentare la minore stabilità di questi giorni. Che c’è, anche se non vale la pena nè drammattizare nè esagerare.