Cosa ci dice il destino di Uber
Decidere sulla app è decidere sull’innovazione. Si riunisce la Corte Ue
Inizia oggi il processo che potrebbe decidere il destino di Uber in Europa. La Corte di giustizia europea, massimo organo giudiziario comunitario, si riunisce per definire la natura – e dunque il trattamento e le modalità di esistenza del continente – della app americana di automobili con autista. Uber ha generato infinite controversie nel Vecchio continente e non solo. Città bloccate in Italia, macchine date alle fiamme a Parigi, tassisti in rivolta da Madrid a Berlino, e tutto per una semplice questione: bisogna considerare Uber come una compagnia di trasporti o come una piattaforma digitale?
A seconda della risposta, cambiano i destini di Uber in Europa – e cambia il campo d’azione del mercato dell’innovazione in tutto il continente. Come compagnia di trasporti, Uber avrebbe tutta una serie di obblighi – fiscali, contrattuali, di tutela dei dipendenti, di addestramento, di accortezze corporative – che ne tarperebbero la capacità ormai proverbiale di disruptor. Al tempo stesso, sancire definitivamente che Uber è una piattaforma digitale che si limita a collegare dei liberi professionisti significherebbe per il legislatore europeo che i mal di testa non sono ancora finiti. La causa contro Uber è nata nel 2014 da una denuncia dell’associazione spagnola dei taxi, e dalla Spagna, dove per altro Uber è stato temporaneamente bandito, è arrivata dopo un lungo iter fino alla Corte europea. La sentenza è attesa nella prima metà del 2017. Ma la questione-Uber è diventata a tal punto scottante nei suoi addentellati politici che mentre il processo spagnolo inizia, il presidente della Commissione, Jean-Claude Juncker, ha bloccato un processo parallelo nato in Francia per timore che la sentenza dia materiale di propaganda alle forze anti globalizzazione.
Domande esiziali come quella sulla natura di Uber sono ormai una costante per le compagnie della Silicon Valley. L’epopea delle notizie false, per esempio, ha fatto sorgere la richiesta di classificare Facebook e Google come “media company”, altra definizione che gli interessati rifiutano. Al confine tra innovazione e regolamentazione si sta creando un nodo che avrà bisogno di tempo, pazienza e tentativi sbagliati per essere districato. Comunque vada, è difficile che a farlo sia la sentenza di un tribunale.