Il governo non scappi e combatta per difendere il Jobs Act
Votare a primavera come vorrebbe il ministro Poletti va bene, ma non per evitare il referendum sul lavoro voluto dalla Cgil
Giuliano Poletti, rientrato di malavoglia al ministero del Lavoro, è evidentemente sfiduciato. Pensa che, se sottoposta al referendum richiesto dalla Cgil – che ha raccolto ben 3 milioni di firme per convocarlo – la sua legge, che abolisce il reintegro sostituendolo con un rimborso per i nuovi assunti modificando il mitico Articolo 18, non reggerà. Non è nemmeno disposto, e su questo ha ragione, a cedere modificando quell’articolo contestato (mentre sulle altre questioni, a cominciare dalla disciplina dei voucher si possono trovare mediazioni e miglioramenti). Per questo invita a scogliere le camere in primavera, in modo da rinviare il referendum. Votare in primavera va benissimo, ma non per evitare il prossimo referendum bensì per rispettare il verdetto politico di quello appena celebrato.
Sull’Articolo 18, invece, si può combattere una battaglia politica, anche in un confronto referendario e, prima, in una verifica della maggioranza all’interno del Congresso del Partito democratico. Anche a Bettino Craxi tutti pronosticavano una sconfitta bruciante nel referendum sulla scala mobile, richiesto dalla maggioranza della Cgil e dal Pci. Invece, alla fine, l’accordo di San Valentino che era stato stipulato dal governo con i sindacati moderati resse all’urto. Se Poletti pensa che gli stessi elettori che hanno bocciato la riforma costituzionale abrogherebbero la legge del Jobs Act, forse si fascia la testa prima di essersela rotta. Spetta alla Cgil raccogliere la maggioranza del corpo elettorale, visto che nei referendum abrogativi è necessario raggiungere il quorum della metà più uno degli aventi diritto al voto. Il fronte del No, pur con un successo superiore alle attese, non ha superato quella soglia. Inoltre, si può sperare che i settori liberali del centrodestra non si facciano coinvolgere in una campagna che contraddice i princìpi su cui si fonda la loro presenza politica. Si può notare che se fosse stata approvata la riforma costituzionale, il quorum referendario sarebbe stato abbassato di un terzo, ma la Cgil non può lamentarsi se la Costituzione è rimasta immutata.
Al di là delle questioni di tattica elettorale, quello che non si può fare è fuggire di fronte alle richieste di verifica del consenso sulle scelte riformatrici, che così apparirebbero come operazioni verticistiche. Liberalizzare il mercato del lavoro è la condizione preliminare per riavviare la crescita produttiva e occupazionale. Qualche primo risultato è stato ottenuto, e chi ha creduto e crede in questa linea ha il diritto e il dovere di difenderla nel merito. Se poi il Congresso del Pd o la maggioranza degli elettori decideranno in senso opposto, se ne prenderà atto. Ma non si può perdere senza combattere.