Fake news sul Jobs Act
Il tormentone dei posti stabili in calo è una bufala a favor di Cgil
C’è un tormentone che gira con insistenza sui social network e sui giornali italiani: le assunzioni stabili sono calate. Quindi – è il ragionamento conseguente – il Jobs Act non funziona. E perciò bisogna aderire all’accozzaglia 2.0 per ripristinare, estendendolo per via referendaria, l’art. 18. Fortunatamente per il paese – e sfortunatamente per gli agit-prop anti riforma – i dati dicono l’esatto contrario. Una vera fake news. Nel periodo gennaio-ottobre 2016 sono state attivate 1.043.555 assunzioni a tempo indeterminato, più 326.765 trasformazioni da contratti a tempo determinato o di apprendistato in contratti a tempo indeterminato. Nello stesso periodo, sono cessati 1.308.680 rapporti a tempo indeterminato. Se la matematica non è un’opinione (e di regola non lo è mai) il saldo netto è positivo e pari a 61.640. Morale della favola: nei primi dieci mesi di quest’anno, la platea dei lavoratori a tempo indeterminato è cresciuta di quasi 62 mila unità. Un successo? Un fallimento?
Questo ciascuno lo giudichi da sé, anche tenendo conto della congiuntura economica che se non è grave è quantomeno molto seria. Il tormentone non si è manifestato soltanto dopo il vuoto post renziano – è stato anche uno dei motivi d’attacco trasversale della campagna referendaria del No – ed è proprio per questa ragione che la continua grancassa del refrain che affianca le parole Jobs Act alla disoccupazione testardamente alta è ormai diventata insopportabile per chi è abituato a osservare i dati. La fredda verità dei numeri è che i lavoratori stabili hanno continuato ad aumentare. Rispetto al 2015, è calato – e di molto – non il numero dei “posti fissi”, ma il loro tasso di crescita (e di conseguenza la loro incidenza sul totale dei nuovi rapporti di lavoro). La ragione è molto semplice: nel 2015 le nuove assunzioni a tempo indeterminato godevano di una decontribuzione fino a 8.060 euro della durata di 36 mesi, che si sono ridotti a 3.250 euro per 24 mesi nel 2016. Era fisiologico che il vantaggio fiscale per i contratti 2015 spingesse le imprese ad anticipare contratti. Se dunque lo sgravio era ovviamente transitorio, la riforma del lavoro ha comunque fatto cambiare l’atteggiamento delle imprese, che hanno trovato conveniente orientarsi verso rapporti a lungo termine. Confondere il numero dei nuovi contratti col loro tasso di crescita è un errore che chi vuole occuparsi seriamente di lavoro non può permettersi. Strumentalizzare questa confusione per un obiettivo politico è una strategia cinica e pericolosa, giocata sulle spalle di migliaia di italiani che, grazie al Jobs Act, possono oggi coniugare le esigenze di flessibilità degli imprenditori con quelle di stabilità dei lavoratori. Anche questa è post verità. O, se preferite, chiamatela ipocrisia.