Davvero avete detto “azienda strategica”?
Un paese a corto di capitalisti non può permettersi il ritorno dell’italianità
L’ossessione per l’italianità delle aziende produce mostri. Già lo si era visto a Siena, con il Monte dei Paschi, laddove la difesa della senesità – al limite del patologico – ha prodotto mali incurabili. Tutto cade sotto la definizione truffaldina di azienda strategica per l’interesse territoriale o nazionale. Ma se ogni azienda diventa strategica, allora nessuna lo è per davvero. Valeva per il Monte nella città del Palio, e qualcuno vorrebbe che fosse così anche per Mediaset, adesso che Vivendi vorrebbe convolare a nozze. I forestieri spaventavano i senesi, così come oggi creano timori i francesi di Vincent Bolloré. Non è la prima volta che accade.
Nel 2015, il Sole 24 Ore titolò in prima pagina: “Addio a un altro settore strategico”. Si riferiva alla cessione alla giapponese Hitachi delle attività ferroviarie di Finmeccanica, la Ansaldo Breda e la Ansaldo Sts, per 1,9 miliardi. Nel 2012, allo scopo di salvaguardare gli assetti proprietari delle società operanti in settori reputati strategici e di interesse nazionale, il legislatore è intervenuto ridisciplinando organicamente (con il decreto-legge 15 marzo 2012, n. 21) la materia dei poteri speciali esercitabili dal governo in tale settore. Per “poteri speciali” si intendono, tra gli altri, la facoltà di dettare specifiche condizioni all’acquisito di partecipazioni, di porre il veto all’adozione di determinate delibere societarie e di opporsi all’acquisto di partecipazioni. Molto bene. Mediaset non è un’azienda di interesse nazionale, ma vive nel mercato e sul mercato. E se c’è una cosa bella del capitalismo è che è transnazionale e non ha confini geopolitici da omaggiare. Ci sono aziende importanti, e Mediaset lo è. Ma camuffare il tema dell’italianità dietro l’espressione “azienda strategica” è un errore che un paese a corto di capitali e di capitalisti non può permettersi.