Una fusione non fa primavera, ma aiuta
Con Banco Bpm il vincolo esterno a favor di aggregazioni funziona
La fusione tra Banco popolare e Popolare di Milano che ha dato vita al Banco-Bpm, realizzando nei primi due giorni un guadagno in Borsa del 18 per cento circa, è già una notizia nel nostro sfilacciato panorama del credito. Ancora di più visto che l’ormai terzo gruppo bancario italiano – posizione dove scalza Mps – nasce senza soccorsi statali o privati, e senza la caccia a più o meno plausibili fondi stranieri. La fusione è l’esito di mercato della riforma delle banche popolari, con la trasformazione in Spa, voluta dal governo Renzi e contrastata dagli interessi politici locali: ai quali facevano comodo le masse di delegati (una testa, un voto) da manovrare in combutta con il sindacalismo interno, e però presentate come servizio al territorio. Un merito va riconosciuto alla Banca centrale europea che ha preteso ricapitalizzazioni che hanno sovvertito una finta democrazia bancaria con poteri incrostati e pochi denari (viva il vincolo esterno!).
Tutti aspetti sui quali fino a ieri l’Associazione bancaria aveva sostanzialmente traccheggiato, preferendo ripararsi dietro alle lamentele sull’Europa. Anche la Banca d’Italia s’è svegliata tardi. Il Banco-Bpm è ora una public company contendibile, dove magari si ricreeranno nuclei di controllo intorno ai soci storici di Milano, Verona e Mantova, città dove i soldi non mancano. Bisognerà però agire sul mercato, non con i ricorsi ai Tar come quelli opposti (senza successo) alla riforma delle banche popolari. Serviranno dunque capitali, strategie, investimenti, concorrenza: come altrove, si dimostra che la formula stand-alone – la difesa di chissà quale specificità tutelata dalla politica – non funziona più.