Disastro Alitalianità
Anche con i soci esteri, la zavorra per la compagnia rimane l’Italia
Alitalia soffre del male più temuto per chi si avventura in alta quota: l’ipossia, la carenza di ossigeno. E’ una sindrome oramai cronica. Sono infatti passati oltre due anni dall’ingresso di Etihad, il terzo vettore mediorientale più grande dopo Qatar ed Emirates, nel capitale e nella gestione manageriale della compagnia aerea italiana, ma la situazione è di nuovo emergenziale. Alitalia va salvata come nel 2008, e prima nel 2001, e necessita di capitali freschi nei prossimi sessanta giorni. Il biennio si è chiuso con 600 milioni di perdite, sarà impossibile arrivare al pareggio di bilancio nel 2017, come inizialmente previsto. Il fallimento della gestione privata dei capitani coraggiosi (2007-’14) è costato 4,1 miliardi di euro ai contribuenti (stima: Mediobanca).
E avere poi pilotato l’ingresso di Poste nel capitale, contestualmente all’accordo con Etihad, fa lievitare il costo per lo stato. Quello che serviva già all’indomani dell’accordo con la compagnia di Abu Dhabi per recuperare competitività era la rottura coi vecchi riti sindacali – i tre anni di pace invocati da Etihad sono stati interrotti da assenze improvvise e scioperi flash – e mantenere le promesse di discontinuità fatte dai governi Letta e Renzi con una migliore infrastrutturazione ferroviaria di raccordo con l’hub romano (turistico) di Fiumicino e la centralità dello scalo di Milano-Linate. Oltre a una maggiore propensione a investire dei soci italiani: ora banche azioniste (Intesa e Unicredit) e creditrici (Mps e Pop Sondrio) dovranno in ogni caso scucire quattrini. La forte concorrenza delle low cost ha pesato: ma il problema di Alitalia resta la zavorra della italianità (tà-tà).