Il rating non si migliora aprendo le casse
I giudizi delle agenzie frustrano i soccorsi pubblici. Cdp non aiuta
Non sono dirompenti le conseguenze del declassamento del merito di credito dell’Italia da parte dell’agenzia di rating canadese Dbrs (da A low a BBB high), motivato dall’incertezza sulla capacità del paese a compiere riforme strutturali, la prolungata debolezza dell’industria bancaria, e la crescita anemica. L’effetto meccanico del downgrade da parte dell’unica agenzia che manteneva l’Italia in serie A (Moody’s, Fitch, S&P sono in area B da tempo) è l’aumento del costo di finanziamento presso la Banca centrale europea per le banche italiane, ma sarà limitato un po’ perché la liquidità abbonda e un po’ perché i titoli di stato non sono il collaterale preferito dalla maggioranza delle banche, che consegnano altri tipi di prodotti all’Eurotower.
Tuttavia Dbrs indica una pessima china: agli occhi degli investitori internazionali il debito italiano diventa più rischioso (il rendimento sale) e meno interessante (i rating calano sistematicamente – Moody e Fitch hanno prospettive negative e potrebbero declassare l’Italia rispettivamente il 20 febbraio e il 21 aprile). Mentre Germania e Francia restano in zona A e l’Irlanda vi è rientrata, non a caso, dopo il purgatorio dell’“austerity” con un upgrade. L’Italia già soffre severe costruzioni di bilancio, da ultimo la minaccia di una procedura d’infrazione europea per deficit eccessivo da scongiurare con una correzione in extremis della legge di Bilancio 2017, e ha in programma una spesa pari all’1,2 per cento del pil per soccorrere Mps: come può pensare di sostenere altre imprese decotte con soldi pubblici? Una Cdp già squilibrata, che finanzia a debito le sue partecipazioni azionarie, non potrà essere d’aiuto.