Foto di Marjan Lazarevski via Flickr

Sotto la superficie dei dati

Redazione

Industria, pil, lavoro. Lettura non ideologica dell’economia d’oggi

L’aumento del fatturato e degli ordinativi dell’industria a novembre 2016, rispettivamente del 2,4 e dell’1,5 per cento, certificato ieri dall’Istat costituisce ovviamente una buona notizia, ma soprattutto – messo in ordine con altri dati – offre una versione diversa e certo migliore rispetto al declinismo di che grava di default sull’idea economica e sociale dell’Italia. Idea imperante nei media e nelle élite culturali-sindacali che poi con giornaloni e talk-show costituiscono un circuito chiuso, determinando “la verità” tra virgolette. Non è questione del famoso storytelling dell’ottimismo attribuito prima a Silvio Berlusconi e poi a Metteo Renzi, ma appunto di cifre, e di qualche loro non preconcetta interpretazione. Torniamo intanto ai dati. Su base annua l’aumento di novembre determina una crescita complessiva del 3,9 per cento, soprattutto sul mercato interno (4,8) ma con un buon andamento anche su quello estero (2,2). Come al solito la componente maggiore del fatturato è data dai mezzi di trasporto, leggi principalmente Fca ma anche i marchi esteri: insomma la voglia e la disponibilità a cambiare automobile. Quella minore, con segno negativo, è delle attività di estrazione; e qui le cose sarebbero andate peggio in caso di successo del referendum No-Triv. Riflettere. Per quanto riguarda gli ordinativi la dinamica è migliore per l’estero, il che porta all’attivo commerciale extra Unione europea a 39,9 miliardi nel 2016, un surplus non intaccato dalla leggera discesa (due decimali) del trend, sempre positivo, di dicembre. L’Italia ha dunque un avanzo di export pari al 2,5 per cento del pil, ben distante dal record di nove punti che tante critiche scatena sulla Germania, ma pur sempre seconda performance d’Europa e tra le prime del mondo. E questo in era di sanzioni alla Russia. Non solo. L’aumento di produzione, ordinativi ed esportazioni nell’ultima parte del 2016 possono far sperare per quest’anno in una crescita del pil superiore allo 0,6-0,7 previsto da istituzioni quali il Fondo monetario internazionale e la Banca d’Italia. E proprio la questione della crescita, certo insufficiente e distante dal resto d’Europa, ma magari non così come si dice, è l’occasione per alzare il sipario su un’altra rappresentazione, quella del lavoro e della disoccupazione. Che è sì elevata, ma forse non proprio come vorrebbe la famosa “verità” mediatico-ideologica.

 

Nell’ultimo Rapporto sull’economia globale del Centro Einaudi, tra i più autorevoli osservatori economici, il curatore Mario Deaglio, pur tra molte incertezze sui possibili freni alla crescita globale derivanti dal “labirinto diabolico” d’invecchiamento mondiale e nostalgie protezionistiche, dedica alcune pagine alla rilettura dell’andamento dell’occupazione in Italia. Dalla quale emerge che la crisi del lavoro esisteva ben prima della crisi finanziaria (il che va già contro la visione complottista grillino-leghista su banche, globalizzazione e dintorni), “ma era occultata da una ridotta partecipazione della fascia tra 15 e 64 anni alla ricerca del lavoro”. Tra gennaio 2010 e luglio 2016 la forza-lavoro, cioè gli occupati e coloro che cercano un’occupazione, aumenta di un milione di unità pari a 5 punti percentuali. Mentre per quanto riguarda gli occupati dal punto minimo di settembre 2013 a giugno 2016 se ne registrano 684 mila in più. Dinamica che è proseguita negli ultimi mesi alla quale va aggiunto il rientro dei cassintegrati. “Vi sembran pochi?”, scrive Deaglio. “Certo non bastano, ma i posti di lavoro non si creano con la bacchetta magica, devono essere produttivi e dar luogo a beni che, ci piaccia o no, stanno su un mercato globale”. Con buona pace della retorica del localismo a km zero. Il Centro Einaudi, non un think tank renziano, assegna il merito in buona misura al Jobs Act, “che pur non avendo rimediato a tutti i difetti ha migliorato un mercato del lavoro che dagli anni Novanta evidenziava i record di massima rigidità nei rapporti dipendenti e di più alto cuneo fiscale tra aziende e lavoratori. Il che determinò la fluidificazione all’italiana, cioè l’arrangiarsi tra collaborazioni a progetto, partite Iva e lavori temporanei”. Risultato: il lavoro atipico era arrivato a rappresentare il 70 per cento delle nuove assunzioni, la cassa integrazione una routine assecondata dall’industria e dai sindacati. Conclusione: “In due anni la riforma ha generato o rigenerato circa 900 mila posti di lavoro, una variazione reale pari al 4 per cento”. In pratica, saremmo tornati quasi ai livelli pre-crisi, anche tenendo conto di quanti allora il lavoro non lo cercavano.

 

E’ una lettura appunto diversa da quella declinista ufficiale. Non siamo fuori dai problemi, tutt’altro. Ma, combinata con i dati su fatturato ed export, esiste sottostante a essi una visione più attenta e migliore di quella alla quale ci hanno abituato non solo i talk-show e la Cgil ma anche gli editoriali lamentosi del maggior quotidiano economico nazionale, il Sole 24 Ore. Senza offesa.

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