L'economia di Israele è più forte dell'odio
Crescita e ricerca al top. Una strategia che batte ogni boicottaggio
Il movimento di boicottaggio economico verso Israele, dei suoi prodotti e del suo lavoro, è tanto diffuso nei paesi europei quanto è assurda la motivazione a esso sottesa: minacciare la salute del cuore dell’occidente nel mondo arabo. Per quanto il boicottaggio sia dannoso per l’economia di Gerusalemme, la sua robusta crescita – la più forte dei paesi Ocse nel quarto trimestre 2016, al 6,2 per cento e con una bassa disoccupazione al 4,3 – e le sue potenzialità di sviluppo superano di molto la potenza d’odio che paradossalmente vi si oppone da nazioni affini per storia e per cronaca, vedi i bollettini degli attentati islamisti sul suolo europeo.
Secondo l’Ocse, riporta Nature, nel 2015 Israele è diventato il primo paese-laboratorio al mondo: ha superato la Corea del sud, ora impelagata in scandali politici che intaccano i suoi vitali chaebol, per percentuale di pil investita in ricerca e sviluppo (4,25 per cento contro il 4,23 coreano). Inoltre, a differenza di Seul, Gerusalemme non ha sperimentato un “boom”, in quanto la quota di pil investita in innovazione nei settori chimico, tecnologico avanzato, nuove frontiere digitali, è rimasta alta e quasi costante nell’ultimo decennio. Una strategia che paga. La “Start Up Nation”, descritta nell’omonimo saggio del 2009, continua a sostenere l’imprenditoria, sia domestica sia internazionale, alleviando le costrizioni giuridiche e finanziarie per le imprese, attirando così investimenti e talenti. E guadagna nuove alleanze strategiche prima inedite, ad esempio quella con l’India alla quale offre expertise tecnologico sia militare sia agricolo. Per molti nemici ci sono altrettanti amici.