La flessibilità non basta
Se la manovra deve essere in deficit, che si facciano riforme incisive
Il governo è al lavoro per il Def e naturalmente già pensa alla legge di Bilancio per il 2018. Secondo le indiscrezioni, il primo obiettivo del presidente Gentiloni e del ministro dell’Economia Padoan è disinnescare le clausole di salvaguardia che farebbero salire l’Iva (costo: 20 miliardi circa). L’altra priorità del governo è tagliare ulteriormente le tasse sul lavoro per un’entità pari al “bonus 80 euro” (costo: 10 miliardi circa). I propositi sono condivisibili, perché l’aumento dell’Iva strozzerebbe i consumi e la detassazione strutturale del lavoro andrebbe a compensare gli effetti della fine della decontribuzione per cercare di far ripartire le assunzioni. Il problema, come ogni volta, è il reperimento delle risorse: le voci principali sono la lotta all’evasione, la spending review e una maggiore “flessibilità” di bilancio, con un rialzo del deficit dall’1,2 per cento previsto al 2 per cento.
L’esperienza sembrerebbe suggerire che soprattutto in un anno preelettorale il terzo pilastro, il maggior deficit, sarà quello portante, ma probabilmente non sarà sufficiente a convincere la Commissione europea sulla tenuta della costruzione. A questo punto sarebbe dannoso far scattare l’aumento dell’Iva, ma è altrettanto evidente che non si può chiedere all’Europa flessibilità in cambio di nulla. Basterebbe mettere sul piatto una serie di riforme a lungo rinviate: disboscamento della selva pietrificata delle partecipate, ricalcolo contributivo (ora che si parla di “vitalizi”) delle pensioni retributive, riallocazione del bonus 80 euro come taglio strutturale dell’Irpef e una vera legge sulla concorrenza. A Bruxelles apprezzerebbero, ma soprattutto ne gioverebbe l’economia italiana.