Cassa depositi e privatizzazioni
Anziché le finte vendite a Cassa depositi e prestiti se ne può fare una vera di Cdp
Privatizzare la Cassa depositi e prestiti? Calma, tra sovranisti da sbarco e nostalgie pubbliche, anche nella sinistra renziana la parola “privatizzazioni” pare ormai tabù. L’obiettivo governativo di un anno fa dello 0,5 per cento di pil per ognuno degli esercizi 2016-2017 e dello 0,3 nel 2019, 30 miliardi in tutto, è molto lontano, e la cessione parziale delle Ferrovie e di una seconda tranche di Poste è messa in discussione nello stesso esecutivo. Tuttavia cedere una quota – si parla del 15 per cento, valore 5 miliardi – di Cdp avrebbe senso per molti motivi.
Il primo è che finora la Cassa è servita al contrario per partite di giro con il Tesoro, acquisendone le controllate: Eni, Terna, Fincantieri, Snam, Saipem fino alle Poste stesse. Alle quali si aggiunge un patchwork di aziende private in fase di salvataggio, dall’Ilva alle Bonifiche ferraresi. Ma Cdp è a sua volta di proprietà del Tesoro per quasi l’82 per cento, con il resto delle fondazioni bancarie. Cederne un po’ sarebbe finalmente una privatizzazione vera, appetibile per i fondi stranieri che porterebbero anche cultura mercatista e magari un piano industriale non all’insegna del pronto soccorso pubblico. Il tutto mantenendo la strategicità delle controllate, per i cultori del filone.
Meglio non farsi illusioni, visto che la Cdp è sempre percepita come rifugio ideale da aziende (management e sindacati) che vogliono restare sotto l’ombrello dello stato, vedi appunto Poste e Fs. Ma il debito pubblico che non scende e il piano privatizzazioni sempre disatteso non sono un gran biglietto da visita per chi ospiterà i 60 anni dei trattati di Roma continuando a chiedere flessibilità europee.