Sul lavoro e il calcetto Poletti dice la stessa cosa dei dati Istat
Nel 2016 la maggior parte di chi cerca occupazione lo ha fatto attraverso amici, parenti e conoscenti. Il rapporto di fiducia preferito al curriculum
Di certo poteva spiegare meglio il concetto, usare parole più consone, soprattutto dopo la polemica, durata settimane, sui giovani che hanno lasciato l'Italia ("ci sono persone andate via e che è bene che stiano dove sono perché questo Paese non soffrirà a non averli più fra i piedi"). Ma il ministro del Lavoro Giuliano Poletti, si sa, è un emiliano sanguigno. Ama la battuta e spesso si affida a metafore per sintetizzare concetti ben più complessi.
L'ultima è quella che, un po' barbaramente, è stata riassunta con la frase: "Per trovare lavoro, invece di mandare curriculum, i giovani dovrebbero giocare a calcetto". È bene spiegare che il ministro del Lavoro non aveva alcuna intenzione di dire che il lavoro si trova giocando a calcetto. E ha anche cercato di spiegarlo: "Voglio chiarire che non ho mai sminuito il valore del curriculum e della sua utilità. Ho sottolineato l’importanza di un rapporto di fiducia che può nascere e svilupparsi anche al di fuori del contesto scolastico. E quindi dell’utilità delle esperienze che si fanno anche fuori dalla scuola".
Ovviamente questo non ha fermato polemiche e strumentalizzazioni. Con Poletti che è tornato nuovamente a vestire i panni del "nemico pubblico". Ripetiamo, poteva usare parole diverse. Ma al di là del gioco del "chi ha detto cosa", il concetto sintetizzato dal ministro è più ampio ed ha a che fare con un fenomeno che nelle statistiche ufficiali va sotto il nome di "tasso di inattività". Cioè coloro che, pur disoccupati, non cercano in alcun modo lavoro. In realtà l'Istat fa una distinzione più ampia dividendo gli inattivi in: quelli che non cercano lavoro ma sono disponibili a lavorare; quelli che non cercano lavoro perché convinti di non trovarlo (i cosiddetti scoraggiati); quelli che pur cercando lavoro non sono subito disponibili a lavorare.
Ebbene, secondo l'Istat nel 2016 il numero di inattivi è sceso, complessivamente, di 410 mila unità. Che è una buona notizia. Nel report dell'istituto, però, è anche scritto che "nella ricerca di lavoro continua a prevalere l'uso del canale informale: rivolgersi a parenti, amici e conoscenti rimane la pratica più diffusa (84,2%); seguono l'invio di curriculum (69,4%) e la ricerca tramite internet (59,3%)". Le prime due categorie, nell'ultimo anno, hanno fatto registrare una flessione, la ricerca tramite internet, invece, è in crescita del 3,1%. Insomma, con buona pace dei critici, Poletti ha, a suo modo, fotografato una situazione esistente. Gli indignati in servizio permanente diranno che questa è la prova che il nostro Paese continua ad essere schiavo di familismi e raccomandazioni. In realtà, molto banalmente, è più semplice trovare lavoro se esiste un rapporto di fiducia con chi te lo offre. Dire che chi riesce ad uscire dalla disoccupazione in questo modo è solo un incapace raccomandato è sbagliato, tanto quanto dire che il curriculum è solo carta straccia. Il mondo del lavoro non è un algoritmo perfetto in cui inserisci i tuoi titoli e in automatico vieni assunto. Servono anche doti extracurriculari, capacità umane. Poletti ha provato a dirlo. A modo suo.