Al dàgli al Marchionne c'è un limite
Il fuoco amico di Orlando su Renzi non giustifica la fuga dalla realtà
Sergio Marchionne è un bersaglio facile e addirittura abusato dalla vulgata pentastellata che adora mettere in contrasto il grande manager e gli operai, le paghe da sogno e gli stipendi da fame, e più in generale aizzare la cultura antagonista sessantottina che in Italia non passa mai di moda. Bene ha dunque fatto Matteo Renzi a ricordare al concorrente per le primarie del Partito democratico, Andrea Orlando, ministro della Giustizia, che usare un simile registro è semplicemente mistificatorio. “Va bene parlare con Marchionne – ha detto Orlando sabato scorso da Napoli – che guadagna come duemila operai, ma con gli altri 1.999 chi ci parla? Ci siamo chiusi nelle nostre stanze, ma il riformismo non può vivere in una stanza chiusa”. L’arroganza del potere, una retorica logora, facile da usare nel finale di campagna per le primarie di partito (30 aprile) come la carta “esci di prigione senza passare dal via” al gioco del Monopoli. “Gli operai non ci prendono a calci perché le fabbriche, anche con Marchionne, le abbiamo tenute aperte”, ha appunto risposto Renzi a Orlando.
Il “dàgli al Marchionne” è oramai uno strumento di propaganda logoro da lasciare a Susanna Camusso e alla Fiom che invece di tentare di accordarsi con l’azienda preferivano ostacolarla per via giudiziaria. Fiat ha ribaltato fabbriche prima male utilizzate, come Pomigliano, per trasformarle in modelli produttivi, mantiene in forze la filiera del settore manifatturiero meridionale, asservite a Melfi, e non solo, esporta all’estero, negli Stati Uniti soprattutto, per mantenere l’Italia nella catena mondiale del valore per produrre l’alto di gamma. Le critiche sono sacrosante ma il dileggio può essere lasciato ai professionisti del nulla del Movimento 5 stelle che lo sanno usare meglio di tutti.