Ilva, un cattivo lavoro dell'idealismo
Non accettare gli esuberi è come non accettare la sofferenza in guerra
In un incontro interlocutorio al ministero dello Sviluppo economico i sindacati metalmeccanici hanno definito inaccettabili gli esuberi condizionati all’acquisto del gruppo Ilva, che conta 14 .200 lavoratori, proposti da ArcelorMittal (4.800) e Jsw (6.400), in gran parte a Taranto. Entrambi i contendenti promettono di aumentare l’organico con l’aumentare della produzione in futuro. L’intenzione dei sindacati è quella di contrattare al ribasso per contenere la sofferenza dei lavoratori e, si capisce, l’intenzione della politica è identica per evitare proteste. Tuttavia infliggere sofferenza su larga scala non è evitabile dopo oltre cinque anni di penosa crisi aziendale aggravata dalla gestione inefficiente dei commissari pubblici. Eliminare dal discorso gli esuberi definendoli “inaccettabili” ricorda la dottrina americana della exit strategy bellica o della guerra da remoto.
Da Clinton a Bush fino a Obama era stato predicato l’idealismo per cui un conflitto, dal Kosovo all’Afganistan all’Iraq, non comporta morti e feriti tra i soldati americani, così i sondaggi d’opinione e le coscienze restano imperturbate. Una fuga dalla realtà: la sofferenza è parte della guerra come i sacrifici delle ristrutturazioni. Non accettare il problema non lo elimina: in Ilva non è più permesso il lusso d’invocare licenziamenti minimi, purtroppo.
Nel Regno Unito l’indiana Tata Steel aveva ceduto gli stabilimenti di Scunthorpe (Galles) al fondo di ristrutturazione Greybull per 1 sterlina quando nessuno vedeva un futuro per la siderurgia britannica – in Italia l’annunciato fondo per l’Ilva non è mai esistito – e ha salvato 4.400 lavoratori che hanno accettato una riduzione del 3 per cento del salario. A un anno di distanza da allora verrà ripristinata la paga piena visto che la compagnia è tornata a guadagnare.