Beppe Grillo a Perugia per la marcia del movimento 5 stelle per il reddito di cittadinanza (foto LaPresse)

Populismo e stato sociale

Redazione

Non è distribuendo soldi, ma assicurando opportunità che si placa la rabbia sociale

Professor Cassese, l’editore Laterza ha appena pubblicato un libro di Tito Boeri, intitolato “Populismo e stato sociale”. L’autore esamina le ragioni della resurrezione del populismo e espone la tesi che sia meglio affrontare i problemi alla radice di questa riesplosione,piuttosto che cercare di inseguire i populisti. Lei è d’accordo?

Bello il libro e giustissima l’idea, che ci permette di ritornare su alcuni problemi soggiacenti, quello dell’eguaglianza e quello del rapporto vecchi-giovani, sollevato nuovamente di recente dalla maggiore autorità vaticana.

 

Perché dell’eguaglianza?

Perché giustamente Boeri vede nelle diseguaglianze il terreno di cultura della rabbia populistica. Boeri mette in primo piano il tema della distribuzione del reddito, in secondo piano l’affievolirsi delle opportunità di mobilità sociale. Io invece rovescerei il rapporto. Le distanze di reddito tra chi ha di più e chi ha di meno ci sono sempre state. Sono state talvolta maggiori, talvolta minori. Secondo una ricca letteratura aperta dal saggio di Thomas Piketty sono ora maggiori. Ma sono state attenuate dalla eguaglianza delle opportunità o delle “chances”: so che qualcuno è più ricco di me, ma so anche che ho la possibilità di divenire ricco come lui o più di lui. L’eguaglianza dei punti di partenza, non quella dei punti di arrivo. In Italia, mi pare che si stia verificando questo fenomeno: non una distribuzione del reddito più sperequata, ma il restringersi delle possibilità, delle opportunità aperte a tutti.

 

E quindi lei con chi se la prenderebbe?

Non me la prenderei con i “ricchi”, ma, per fare solo un esempio, con chi sistema in ruolo precari assunti per grazia divina, o familiare, o di partito, togliendo posti ai concorsi. I concorsi aprono la strada a tutti. La sistemazione dei precari, particolarmente abbondante in questi tempi, la chiude, produce condizioni di privilegio. Questo crea le vere diseguaglianze e produce la rabbia. Se la si vuol mettere in politica, si potrebbe dire che Renzi, per accontentare i precari, crea terreno di coltura per il grillismo.

Boeri indica come causa della distribuzione particolarmente diseguale dei redditi la globalizzazione e il progresso tecnologico.

Anche qui invertirei il rapporto. Il progresso tecnologico fa sentire molto i suoi effetti: pensi a tanti lavori intermedi che stanno scomparendo o si vanno assottigliando, il lavoro strumentale delle segreterie, quello delle agenzie di viaggio, anche quelli che erano emersi recentemente, come il lavoro nei “call centers”. Invece, la globalizzazione sta riportando equità nel mondo: pensi a quanto lavoro e risorse sta portando in Cina.

  

Lei ha parlato prima anche del rapporto giovani-anziani.

Anche questo è un problema di eguaglianza. Lawrence Friedman, grande storico del diritto americano, scrisse, vent’anni fa, un bel libro, edito dalla Harvard University Press, intitolato “A Republic of Choice”. L’idea era che a ognuno deve essere lasciata facoltà di scelta. Infatti, negli Stati Uniti da qualche tempo è vietato il “compulsory retirement”. C’è, poi, un secondo argomento. Il tema, usato anche di recente, per criticare le fondamentali riforme avviate da Fornero (non dimentichiamolo: uno dei nostri maggiori studiosi di questi argomenti), è questo: gli anziani vadano via, lascino il posto ai giovani. 

Ragionamento che contiene due errori. Primo: è fondato su una concezione statica della società, come se essa avesse un numero fisso di posti. Un anziano produttivo, invece, aumenta con il suo lavoro la possibilità di impiego di giovani. Secondo: quegli anziani che vanno via dovranno essere mantenuti – finché il sistema non sarà interamente contributivo (il sistema contributivo puro si applica solo a chi ha iniziato a lavorare nel 1996) – da pensioni a carico di altri, che avranno forse un posto, ma dovranno portarsi sulle spalle – fino a un certo punto – il peso del sistema pensionistico di chi ha abbandonato il lavoro.

  

Insomma, caro professore, come declinerebbe l’eguaglianza?

Eguaglianza sta meno in ciò che si ha, più in quello che si può: nelle strade che si aprono, non nelle ricchezze che si posseggono.

  

Ma lei di recente ha scritto un saggio sull’eguaglianza sostanziale, analizzando la formazione dell’articolo 3, secondo comma, della Costituzione. Questo non rientra nel quadro?

Lei apre il secondo capitolo del tema dell’eguaglianza, che è quello ispirato da Massimo Severo Giannini, fortemente influenzato dal piano Beveridge. Fu Giannini a scrivere quella norma e a passarla a Lelio Basso, che la presentò alla Costituente, trovando subito l’appoggio di quella che doveva diventare la sinistra democristiana, specialmente Fanfani.

 

Perché quella norma è importante per l’eguaglianza?

Perché riconosce le diseguaglianze dei punti di partenza e dispone che la Repubblica (quindi tutto l’ordinamento) deve darsi da fare per rimediarvi. È una norma rivoluzionaria perché impegna la Repubblica, quindi innanzitutto lo Stato, a cambiare se stesso, ad adoperarsi, specialmente sui quattro cardini dello Stato del benessere, sanità, scuola, lavoro, protezione sociale.

   
Ma anche i Cinque stelle propongono qualcosa di simile, con il cosiddetto reddito di cittadinanza.

Si tratta di cose diverse. Beveridge proponeva lavoro, non reddito. Pensi a quel che sta succedendo in quei paesi dove lo Stato-provvidenza ha assicurato sostegni reddituali: vi sono famiglie dove si è arrivati alla terza generazione di persone che non hanno mai lavorato. Questo ha conseguenze sociali importanti: lavoro vuol dire essere inseriti in una società, avere interesse alla vita degli altri, collaborare alla vita della comunità. Chi non lavora è estraneo a tutto questo. Per tornare al libro di Boeri, ne trarrei un insegnamento: non è distribuendo soldi, ma assicurando opportunità che si placa la rabbia sociale.