Contaminazione del nostro capitalismo
Gli imprenditori italiani ci sanno fare ma hanno da imparare dall’estero
Secondo l’edizione 2017 dei Dati cumulativi di 2.065 imprese italiane a cura dell’Area studi Mediobanca, durante gli anni della crisi (2008-2016) le aziende manifatturiere medie e medio-grandi guidate da imprenditori italiani hanno dimostrato una migliore capacità di navigare i mercati rispetto a quelle a controllo estero presenti sul territorio nazionale – un maggiore incremento percentuale del fatturato (+ 2,2 vs - 7,9), dell’export (+18,9 vs +1,7) e una tenace difesa dei margini (-3,3 vs -12,8). Questo deriva dalle caratteristiche del quarto capitalismo a guida famigliare, imprese che puntano sul presidio di nicchie commerciali con prezzi di vendita sostanzialmente immuni dai marosi dei mercati anche grazie a un solido rapporto di fiducia con i clienti. Ma se le imprese italiane hanno registrato migliori performance commerciali, quelle a controllo estero – di multinazionali come Siemens, General Electric e Parmalat – hanno usato gli anni duri per ristrutturarsi privilegiando in maniera quasi maniacale l’efficienza e la redditività. Le società straniere in Italia possono permettersi politiche di taglio dei costi non paternalistiche con una riduzione del personale aggressiva (-14 per cento vs -1) che ha inciso sulla manodopera non specializzata. La vulgata di un comportamento rapace è fuorviante: al taglio del personale corrisponde una paga più alta per la forza lavoro, la scelta di manodopera con alte competenze e l’aumento della produttività (+17,5 vs +8) – oltre a una riduzione inferiore degli investimenti. In quanto a creazione e collocazione dei prodotti sui mercati gli imprenditori italiani non hanno niente da invidiare a quelli stranieri, ma possono lasciarsi contaminare dal loro modello di gestione, non familistico, preferibile per competere.