Moralizzazione anti Uber
La cacciata da Londra ci dice qualcosa della Brexit “open for business”
Quando il comune di Londra ha fatto sapere, ieri, che non vuole rinnovare la licenza di Uber, il premier inglese arrivava a Firenze (dove Uber comunque non c’è) per il suo discorso sulla Brexit. La sincronia è da tempesta perfetta: se persino la liberalissima Londra, cittadella della resistenza europeista aperta al mondo, si chiude un po’ e dà corda alle lamentele feroci dei tassisti londinesi, vuol dire che davvero il Regno Unito non è e non sarà più lo stesso. Per non parlare della contraddizione strategica e culturale: la May continua a ripetere che il paese è “open to business” dopo la Brexit, come a dire il mondo non si ferma se siamo fuori dall’Ue, e poi Uber viene messo nell’angolo dei non grati. Come è possibile?
Le motivazioni dell’Autorità dei trasporti londinesi mettono il dito nelle ferite aperte dell’esperienza Uber: dopo una disruption aggressiva e remunerativa, la società è stata mezza travolta dalle accuse di harassment sessuale interne, dall’utilizzo al limite del lecito del suo software, dalla rimozione del suo ceo Kalanick. Si è così cominciato a dire che Uber non gioca secondo le regole, e Londra infatti dice manca “una responsabilità aziendale” che ha “implicazioni potenziali sulla sicurezza”. E’ come dire: condanniamo la cultura aziendale di Uber, in nome di una moralizzazione che è stata indotta anche da storie non edificanti sugli autisti delle auto della società. Si tratta quindi di uno scontro che fornisce una nuova sfumatura alla guerra che molte città stanno facendo a Uber, oltre alla disruption del mercato cosa c’è? La risposta chissà se si troverà, nel frattempo i più penalizzati, come spesso accade, saranno i consumatori.