Educazione fuori mercato
Anche l’Ocse conferma che “più università per tutti” non fa pil
Se venisse modificata l’offerta formativa, nel nostro paese si occuperebbe il 40 per cento dei posti attualmente vacanti, dice uno studio McKinsey. L’Italia, infatti, abbonda di professioni impiegatizie, e nei prossimi venti anni il 56 per cento di esse rischia di essere sostituita da algoritmi o robot, dice la Oxford Martin School. I dati diffusi ieri dall’Ocse ci confermano quindi quanto già sapevamo, e cioè che una parte dei lavoratori italiani (il 35 per cento) è occupata in un settore non correlato ai propri studi, che possiede competenze basse rispetto alle mansioni svolte, o addirittura in eccesso (il 18 per cento dei laureati).
Una ulteriore evidenza descrive dunque un paese nel quale la distanza tra la formazione e il lavoro appare siderale e l’ipertrofia universitaria acuita dalla riforma Berlinguer ha solo aggravato una patologia in atto dal Sessantotto: si chiama università per tutti. La severità dei criteri selettivi di ammissione e l’adeguamento dell’offerta formativa alle esigenze del mercato sono, non per caso, gli indicatori della classifica annuale del Sunday Times, che tra le università inglesi mette al primo posto quella di Oxford, al secondo la University of Arts di Londra, al terzo Cambridge. L’esatto contrario di chi vuole abolire il numero chiuso in Italia, dove c’è. In nome non della qualità e del merito, ma del diritto allo studio per tutti. Mentre rinnovando l’offerta formativa, favorendo il sistema duale e l’integrazione scuola-lavoro, si potrebbe dare la possibilità a un maggiore numero di persone di trovare un impiego adeguato alle esigenze del mercato.