Bilancio magro
Due buoni pilastri e diverse occasioni perse nella legge di Stabilità
La legge di Bilancio 2018 in arrivo nelle prossime ore in Parlamento coincide con due variabili esterne cruciali: l’avvio della fase finale del Quantitative easing (acquisto di obbligazioni pubbliche e private) della Banca centrale europea e i piani di rilancio delle economie nazionali che Francia e Germania, in accordo tra loro, stanno mettendo a punto assieme a varie altre intese su governance, trattati e cariche di vertice europee. Dunque poteva essere l’occasione di una manovra di svolta e di riforme per non condannare l’Italia a una perenne crescita minima, in coda all’Europa: si potevano ridurre le tasse e liberare gli investimenti, con le risorse da reperire attraverso tagli alla spesa oppure con nuovi margini sul deficit senza però discostarsi dal sentiero stretto del risanamento dei conti. Lo spazio fiscale andrebbe ovviamente negoziato in sede europea, inserendosi con autorevolezza, e senza pugni sul tavolo, nelle trattative tra le maggiori capitali sulla futura architettura dell’Unione. Il governo ha fatto una terza scelta, minimalista e conservativa, forse inevitabile viste le spinte elettorali, che ha il pregio di mettere su un percorso virtuoso il debito.
Due grandi meriti (qui si vede il lavoro del ministro Padoan) sono l’aver resistito, finora, alle richieste sindacali e partitiche di non far scattare nel 2019 il naturale adeguamento a 67 anni dell’età pensionabile, e l’aver destinato parte delle poche risorse a sgravi contributivi per l’assunzione di giovani. Il resto però è il solito rosario di bonus su mobili, ristrutturazioni, messe a norma, rottamazioni. As usual. Sono utili, per carità (anche alle aziende), ma si muovono nella logica del cacciavite, anzi del temperino, e sono una dispersione pulviscolare di risorse che andavano concentrate sulle priorità del paese. Poi c’è il rinnovo del contratto degli statali, 2,9 miliardi nei prossimi tre anni. Tenerlo ancora bloccato non era forse possibile, ma non c’è alcuna evidenza, a parte le intenzioni della riforma Madia, che sarà collegato al merito e alla produttività. Ancora più nel comparto scuola, dove si ipotizzano aumenti di 400 euro netti per i presidi, che verranno equiparati agli altri dirigenti pubblici ma avendo, rispetto a loro, ancora meno responsabilità (e questo dopo la sollevazione sindacale contro i “presidi sceriffi”); e gli 85 euro da concedere agli insegnanti, con l’aggiunta che l’aumento, dietro preciso impegno del governo e a differenza del settore privato, non si mangerà il bonus di 80 euro erogato due anni fa. E questa è una palese ingiustizia a beneficio di una categoria già abbondantemente protetta. Anche qui: poteva essere l’occasione per puntare sulla qualità della didattica e degli studenti. Si è scelto come sempre l’apparato.
tra debito e crescita